È il Vasari nelle sue celebri “Vite” a narrare che lo “Spasimo” di Raffaello Sanzio eguagliava per fama il vulcano Etna. Siamo nel primo ventennio del ‘500, al grande pittore fu commissionata l’opera che oggi si ammira al Prado di Madrid. Per ospitarla degnamente, Antonello Gagini fu incaricato di realizzare un altare in marmo che, dopo alterne vicende, fu dimenticato a Villa San Cataldo, a Bagheria.
Si deve alla storica dell’arte Maria Antonietta Spadaro, il ritrovamento dell’altare, 34 anni fa. Oggi è stato ricostruito e rimontato allo Spasimo, dove lo disegnò il Gagini nel 1516. Il posto dello “Spasimo di Maria Vergine” di Raffaello, sarà occupato dalla sua “ricostruzione” a cura di Factum ARTE che ha firmato l’analoga operazione per la Natività del Caravaggio rubata all’oratorio di San Lorenzo cinquant’anni fa. Il lavoro di ri-materializzazione è firmato da un team di storici, artisti, restauratori ed esperti di software 3D dell’organizzazione internazionale fondata da Adam Lowe a Madrid. Il progetto di recupero, ideato da Vittorio Sgarbi e Bernardo Tortorici di Raffadali, è inserito tra le manifestazioni per i 500 anni dalla morte di Raffaello, coordinate da un comitato scientifico nominato dal MiBaCT.
“Una restituzione alla città di Palermo – dice il sindaco Leoluca Orlando –, un’opera che è scampata a naufragi, distruzioni e bombe, e che oggi rivediamo nel suo virtuale, straordinario splendore, come neanche Raffaello riuscì ad ammirare mai”. “Una ricostruzione filologica – interviene Vittorio Sgarbi – perché quest’opera nasce su tavola e solo nell’800 migra su tela, così come la vediamo al Prado. Ecco, questa ricostruzione di Factum Arte la restituisce alla sua essenza, e l’altare del Gagini, che mi piace immaginare sia anch’esso nato su un disegno di Raffaello, è il suo degno completamento. Credo che questa restituzione sia l’unica novità dell’Anno Raffaellesco”. L’idea della riproduzione si deve a Bernardo Tortorici e Peter Glidewell di Factum Arte, il ritrovamento a Maria Antonietta Spadaro che sottolinea come “lo Spasimo nello Spasimo è emozionante. E’stato un lungo lavoro di recupero e restituzione, che oggi emoziona”.
Sarà possibile visitare la cappella che ospita l’altare allo Spasimo, nell’ambito del festival RestART, ogni venerdì e sabato dalle 19 a mezzanotte fino al 29 agosto. Biglietto: 3 euro. Questo primo weekend (10 e 11 luglio) visite dalle 19 alle 20,30.
La storia della tavola di Raffaello è strettamente legata a quella dello Spasimo e dell’altare del Gagini. La chiesa di Santa Maria dello Spasimo, finanziata dal giureconsulto Jacopo Basilicò e approvata da Papa Giulio II nel 1509, fu realizzata da maestranze spagnole. L’ingresso era preceduto da un atrio, aperto da un grande arco ribassato e affiancato da due cappelle simmetriche coperte da cupolette (ne rimane solo una). Il Basilicò decise di commissionare al più famoso pittore del tempo, Raffaello Sanzio, un dipinto che raffigurasse proprio lo Spasimo di Maria Vergine, cioè il dolore della Madonna nel vedere il figlio cadere sotto il peso della Croce sulla via del Calvario. Raffaello, ispirandosi ad un’incisione del tedesco Dürer, realizza l’opera intorno al 1517. E’ il Vasari a raccontare il naufragio della nave che trasportava lo Spasimo lungo le coste liguri, del ritrovamento della tavola da parte dei genovesi che tentarono di appropriarsene e dell’intervento di papa Leone X perché fosse riconsegnata ai palermitani. Fatto sta che lo Spasimo giunge a Palermo tra il 1518 e il 1519 e viene collocato nella cornice marmorea del Gagini. E’ un’opera straordinaria, la più grande (cm. 318×229) mai completata da Raffaello: di un’assoluta armonia formale e cromatica nelle figure e nel paesaggio, equilibrio compositivo e rigore prospettico; Raffaello riesce ad esprimere in modo contenuto il dolore della Vergine, e il Cristo, vestito, non appare sfigurato dalle torture subite. Nulla nei dipinti di Raffaello, doveva turbare la visione composta, anche se il tema era sconvolgente come la Passione di Cristo. L’altare e la tavola, tanto venerata dai palermitani, seguono i monaci olivetani nel trasferimento dallo Spasimo al monastero di Santo Spirito. Ma nel 1661 l’abate Clemente Staropoli, tramite il viceré Francesco de Ayala, dona il prezioso dipinto a re Filippo IV di Spagna, sostituendolo con una copia. L’opera, conservata nella cappella dell’Escorial, ha rischiato di essere distrutta in un incendio poi è razziata dalle truppe napoleoniche e trasportata a Parigi dove, nel 1812, è trasferita dalla tavola originaria su tela. Restituita alla Spagna, entra nella collezione del Prado di Madrid dove è esposta tuttora.
Ai monaci olivetani resta invece l’altare per un altro secolo – lo descrive il Mongitore nel 1721 – ma quando si trasferiscono a San Giorgio in Kemonia, lo abbandonano alla cappella di San Luigi Gonzaga, nella chiesa del Collegio Massimo dei Gesuiti (l’attuale Biblioteca Regionale) dove fu modificato per incorniciare il rilievo “Apoteosi di San Luigi” di Ignazio Marabitti del 1763. Tra il 1888 e il dopoguerra l’altare fa parte della collezione del Museo Nazionale ma è troppo ingombrante per essere trasferito all’Abatellis: viene restituito ai Gesuiti che smembrano l’insieme, il rilievo del Marabitti a Casa Professa e l’altare, diviso in pezzi, a Villa San Cataldo a Bagheria. Lo si crede scomparso sotto le bombe americane, ma 34 anni fa viene ritrovato e catalogato dalla storica dell’arte Maria Antonietta Spadaro partendo da un’antica foto tratta dagli archivi della Soprintendenza. Oggi, dopo un lungo restauro curato dall’Ufficio Città Storica del Comune, viene restituito a Palermo.
L’altare in marmo di Carrara è costituito da due colonne (m. 3,30) finemente lavorate a soffici grappoli, che reggono una trabeazione, anch’essa a motivi vegetali, conclusa da un classico timpano, che nello spazio interno accoglie un altro decoro.
RESTART
Ma il viaggio di RestART non si fermerà al solo Spasimo. Il festival – il primo post-covid, che apre in notturna ogni venerdì e sabato, dalle 19 a mezzanotte, 25 siti culturali di Palermo –completa la sua offerta lanciata lo scorso fine settimana, quando i siti sono stati visitati da oltre mille persone. Si aggiungono da questo weekend, gli ambienti sontuosi del nobile Palazzo Mirto che permettono un vero viaggio nel passato tra velluti, dorature, antichi specchi, strumenti da salotto e fontane rocaille; e la grande sala, il foyer e il palco reale disegnati dal Basile per il Teatro Massimo. Oltre alle sale di Palazzo Abatellis dove si ri-scopriranno l’”Annunziata” di Antonello da Messina, o il grande affresco del “Trionfo della morte”;ai reperti del Museo archeologico Salinas che apre i suoi chiostri al chiar di luna; alle installazioni inattese di Boltanski al Museo Riso, ma anche alle vedute d’autore di Villa Zito – dove ha riaperto l’interessante personale di Nicola Pucci, che raccoglie un ventennio di opere dell’artista palermitano – e Palazzo Branciforte, con gli scaffali malinconici del Monte di Pietà, la collezione archeologica e numismatica; si potrà passeggiare tra i ficus dell’Orto Botanico o sedersi alla caffetteria appena inaugurata, si resterà attoniti di fronte ai magnifici marmi mischi di Santa Caterina e si salirà sulla sua cupola (di sicuro il sito più visitato durante il primo weekend); centinaia di scalini anche per raggiungere la cupola del SS. Salvatore, affacciata sui tetti del Cassaro, e la torre di Sant’Antonio Abate, da dove si osserva la Vucciria addormentata. Una prospettiva inedita anche per la chiesa della Catena, la chiesa di San Matteo, per Casa Professa (aperta solo sabato, poi il 17 e il 25 luglio; ad agosto, l’8, il 21 e il 29), per l’Archivio Storico che svetta in verticale con i suoi scaffali che sembrano sfidare la forza di gravità; e la chiesa di San Giovanni degli Eremiti, parte del percorso arabo normanno protetto dall’Unesco. E proprio accanto ecco il primo dei quattro oratori su cui lavorò Giacomo Serpotta: San Mercurio sorto dal 1640 per volere della Compagnia della Madonna della Consolazione di san Mercurio, fondata nel 1572. Putti festosi, angeli, figure e le ghirlande si ritroveranno poi al SS.Rosario di santa Cita, voluto dalla Compagnia fondata nel 1570 dopo la scissione dall’omonima Compagnia di san Domenico, è l’oratorio delle nobili dame caritatevoli. Terzo in ordine temporale, San Lorenzo della Compagnia di san Francesco, dove Serpotta lavorò tra il 1699 e il 1706: da qui fu rubata cinquant’anni fa, la Natività del Caravaggio, sostituita da la riproduzione 3D di Factum Arte. Ultimo, è l’oratorio del SS. Rosario uno dei più sontuosi, sorto nel granaio accanto alla chiesa di S. Domenico. Racchiude tele di Pietro Novelli, Matthias Stomer, e la “Madonna del Rosario e santi” di Antoon van Dyck (1628), considerata la più antica rappresentazione iconografica di santa Rosalia. Ai quattro siti, si aggiunge il cinquecentesco Oratorio dei Bianchi con la collezione di stucchi eseguiti dal Serpotta tra il 1703 e il 1704 per le cappelle della Madonna della Pietà e della Vergine della chiesa del Monastero delle Stimmate di San Francesco, demolita per far posto al Teatro Massimo.