Sui social e su alcuni siti si insiste sulle capacità della sieroterapia nel contrasto al coronavirus. Si tratta dell’uso del plasma di pazienti guariti da iniettare su persone malate; in alcuni casi ci sono stati risultati positivi, con evidenti miglioramenti delle loro condizioni.
Sieroterapia contro il coronavirus. Le precisazioni di Avis e Burioni
Tanto è bastato a molti per ritenere la sieroterapia la panacea contro il covid-19, con annesse teorie complottiste secondo le quali su queste cure sarebbe calata un velo di silenzio o, comunque una sorta di sordina, per favorire l’industria dei vaccini.
A provare a fare chiarezza, con gli argomenti e il linguaggio della scienza, sono stati il Presidente di AVIS Nazionale, Gianpietro Briola, e l’infettivologo Roberto Burioni.
Quest’ultimo chiarisce che la sieroterapia è una “arma” vecchia di 130 anni (fu usata per la prima volta a Berlino, nel 1891, su una bambina malata di difterite), che in molti casi ha dato risultati positivi, nella profilassi di tetano, rabbia, epatite A ed epatite B, mentre in altri casi si è rivelato inutile HIV ed epatite C, per esempio. E pure nel caso dell’influenza.
“In questo momento disperato – scrive l’infettivologo sul suo sito medicalfacts – si sta tentando di percorrere questa strada anche per curare le persone colpite dal coronavirus: si prende il plasma (che è tutto quello che c’è nel sangue tolti globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, quindi la parte liquida) di un individuo guarito, si verifica la presenza degli anticorpi e infine si somministra ai malati. I risultati preliminari di questa pratica sembrano incoraggianti, ma ancora riguardano un numero troppo esiguo di pazienti (5, 10 e 6) e soprattutto manca il fondamentale “braccio di controllo” (pazienti che dovrebbero ricevere il “placebo”, in questo caso il siero – o il plasma – di individui sani), e proprio per questo sono in corso studi in tutto il mondo che ci daranno una risposta chiara a questa domanda”.
Burioni commenta lo studio al quale partecipa Fausto Baldanti dell’Università di Pavia. “In questo caso è stata introdotta una variante: non vengono arruolati nella donazione del plasma tutti i pazienti, ma solo quelli che contengono un’alta quantità di anticorpi in grado di neutralizzare il virus, e in questo caso i risultati sembrano ancora più incoraggianti. Questa terapia è molto promettente, ma dobbiamo capirne bene i limiti.
Prima di tutto il plasma di un donatore non è qualcosa di facile da preparare o di economico. Bisogna selezionare accuratamente i pazienti (ci vuole tempo e denaro), bisogna preparare il plasma, bisogna sincerarsi che il plasma non trasmetta altre malattie infettive (tutto quello che viene dal sangue è rischioso), bisogna valutare la quantità di anticorpi neutralizzanti il virus e anche escludere la presenza di anticorpi che possano danneggiare le cellule del paziente che riceverà la donazione. Inoltre, i diversi preparati sono difficili da standardizzare: in altre parole il contenuto di anticorpi sarà diverso da una preparazione all’altra e questo diminuirà in alcuni casi l’efficacia (somministriamo la stessa quantità di plasma, ma una diversa quantità di “principio attivo”).
Però, soprattutto l’elemento limitante è il numero dei donatori: solo chi è guarito può donare il sangue e quindi le quantità disponibili sono per ovvi motivi (non possiamo dissanguare le persone) estremamente limitate. In generale, due guariti riescono a curare un malato, ma anche con una proporzione uno a uno voi capite che non si va molto lontano. Inoltre, non è una pratica priva di controindicazioni: oltre alla presenza di anticorpi “dannosi” di cui abbiamo parlato prima, le somministrazioni di plasma possono alterare i processi della coagulazione. In un paziente COVID-19 dove questa funzione appare disturbata, bisogna avere particolare cautela”.
“Se questa cosa funzionasse, sarebbe fantastico”, ammette Burioni. E la soluzione sarebbe il siero artificiale: “la tecnologia moderna ci consente di isolarne i geni e produrne in laboratorio una quantità illimitata, grazie al clonaggio di anticorpi monoclonali umani (dei quali chi scrive si occupa da 35 anni, avendo su questo argomento incentrato la propria tesi di laurea svolta all’Università della Pennsylvania nei lontani anni ’80 e la sua seguente produzione scientifica). A questo punto avremmo un “siero artificiale” che contiene una quantità esatta e sempre identica di anticorpi efficaci, non conterrebbe nessun “anticorpo pericoloso”, non andrebbe a interferire nei processi coagulativi del paziente e – soprattutto – potrebbe essere prodotto in maniera illimitata e a costi molto inferiori rispetto a quelli che sono necessari per la produzione del plasma”.
Ci vorrebbero, comunque, tempo e denaro. Stesse argomentazioni le porta il presidente di Avis, la principale associazione dei donatori di sangue in Italia, aggiungendo che: “AVIS, insieme al mondo scientifico e al Centro Nazionale Sangue, sta seguendo con molta attenzione l’evoluzione e si sta adoperando per studiare queste opportunità. Al momento, però, è importante mantenere la calma e informarsi sempre attraverso fonti attendibili e non creare false aspettative. Appena conosceremo il test che meglio è in grado di rilevare e dosare questi specifici anticorpi e non appena le aziende di plasmaderivazione saranno in grado di produrre le immunoglobuline specifiche, coinvolgeremo la generosità dei donatori per la plasmaferesi”.