Scatti che hanno fatto la storia, di un Paese, la Germania, di un continente, l’Europa, dell’intero pianeta. Giovani, non soltanto berlinesi, non soltanto tedeschi, saliti sul muro che divideva in due una città e il mondo intero. Da un lato, il bene, dall’altro, il male assoluto. Dove fosse l’uno e dove fosse l’altro, ciascuna delle metà di quel mondo lo raccontava a suo modo.
Trent’anni fa, il 9 novembre del 1989, cadeva il Muro di Berlino. Una “semplice” demolizione, divenne simbolo di libertà, il trionfo degli ideali della democrazia contro l’oppressione del totalitarismo comunista, la vittoria del luminoso Occidente, contro il tenebroso oriente dominato dall’orso comunista. I simboli, si sa, vivono di vita propria e prescindono dalla consistenza della realtà che vorrebbero raccontare.
Il crollo del muro fu il primo pezzo di un domino che portò alla caduta di tutti i regimi del blocco comunista, dalla Germania Est, alla Romania, alla Polonia, fino alla stessa Russia sovietica, alterando l’equilibrio sorto dalla Pace di Yalta, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Fu la fine della Guerra fredda, ma non cominciò quel 9 novembre né sancì, come scrisse qualcuno (Francis Fukuyama) la fine della storia, con la definitiva vittoria del modello delle democrazie occidentali guidate dagli Stati Uniti, con la morte delle ideologie che avevano caratterizzato il “Secolo breve”, il Novecento dal 1918 al 1989, con i suoi milioni e milioni di morti nel nome dei totalitarismi più fanatici e aberranti. La caduta del muro fu soltanto un episodio, come l’abbattimento della statua di Ceaucescu a Bucarest, ma la sua portata simbolica fu decisamente maggiore. Senza la crisi di Mosca, senza Gorbaciov, Eltsin, tutto si sarebbe forse fermato lì. Non arrivarono i carri armati di Mosca, come a Praga, venti anni prima, o come a Budapest, 33 anni prima.
L’orso sovietico era spelacchiato, agonizzante. Aveva perso la guerra fredda, non tanto dal punto di vista militare, quanto del progresso tecnologico e civile. E’ il destino di tutti gli imperi e quello di Mosca non fece eccezione. Piano piano, perse la sua capacità attrattiva e i paesi satellite che gli orbitavano attorno andarono per la propria strada. Il popolo di Berlino colse questa crisi storica e ne approfittò.
Moriva un mondo e da esso si sperava ne nascesse un altro: progressista, democratico, egualitario, globalizzato. L’Europa trovava una unità mai conosciuta prima e la vecchia Cee si candidava a diventare potenza politica mondiale, a affrancarsi dalla guida americana e riprendere il suo posto di leader di civiltà perso dopo il 1945.
Non è andata così. Quei sogni si sono infranti per le crisi politiche e quelle economiche, le guerre, le nuove polarizzazioni non più basate sul dualismo democrazia contro totalitarismi, ma su scontri etnici e religiosi.
Senza l’Unione sovietica, l’America è diventata l’unica superpotenza del mondo, per qualcuno, “lo sceriffo del pianeta”, ha preteso di portare la democrazia ovunque, a suon di guerre, con le quali ha provocato la radicalizzazione dei movimenti islamisti dei paesi del medioriente e la nascita del terrorismo come lo conosciamo oggi. Oggi c’è la corsa a occupare quel posto e la Cina è in primissima posizione. Ma lo scontro per la leadership mondiale con gli Usa non è più nel nome del liberalismo o e comunismo, ma dell’economia. Questo è quanto ci ha regalato il nuovo mondo.
In quella corsa, non c’è l’Europa, drammaticamente. Doveva nascere una nuova Europa, nel nome dell’unità di un nuovo destino, una Europa dei popoli. Le differenze tra stato e stato dovevano diventare ricchezza, valore aggiunto. Ci si provò, con i nuovi patti fondativi della Unione europea, che doveva prendere il posto della Comunità economica europea. Si tentò anche di scrivere una costituzione europea, che però venne cassata dai referendum. E’ rimasto questo baraccone burocratico ed eurocratico, dal quale i paesi vogliono fuggire. Ha cominciato l’Inghilterra.
Un’Europa che non ha peso nel mondo, che non parla con una voce sola, un’Unione nella quale i leader vanno per conto proprio provando a costruire una leadership locale, dove Francia e Germania provano a prendere il sopravvento.
Si da la colpa ai sovranismi e nazionalismi riemergenti. “Un falso storico”, scrive Marcello Veneziani su Panorama. Sovranismo e nazionalismo sono reazioni, conseguenze, non cause, di una globalizzazione, all’insegna delle leggi del libero mercato e libero consumo, che pretende di assumere il ruolo di ideologia mondiale unica, di usare gli uomini come masse di lavoro intercambiabili, senza diritti, patria o religione. Non è per questo che è fallita l’idea di Europa.
Si pensava che Berlino diventasse dopo Bruxelles, capitale culturale e politica, almeno a livello simbolico, della nuova Europa, ma lo è diventato Francoforte, sede della Banca centrale europea, dove nasce quell’euro che strozza i paesi più deboli e ha finito di infrangere i sogni nati quel 9 novembre del 1989.