“La stessa mano, non mafiosa, che accompagnò Cosa nostra nell’organizzazione della strage di via D’Amelio potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio e allontanare le indagini dall’accertamento della verità”. Così Claudio Fava, presidente della Commissione regionale antimafia, ha parlato in occasione della conferenza stampa di presentazione del lavoro di indagine sui depistaggi della strage via D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanula Loi ed Eddie Walter Cusina.
“Il ruolo dei servizi segreti è stato pervasivo: la mano che sottrasse l’agenda rossa di Borsellino non è una mano mafiosa. Il primo atto della procura di Caltanissetta, un atto contro la legge, è la richiesta al Sisde di dirigere nella fase iniziale le indagini su via D’Amelio. La procura di Caltanissetta all’indomani della strage di Capaci aveva scelto, per 57 giorni, di non ascoltare Paolo Borsellino e poi, due ore dopo la strage di via D’Amelio, ha scelto di affidarsi al Sisde – dichiara Fava – L’impulso è partito dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, ma si suppone che gli altri magistrati ne fossero a conoscenza“. Nelle 80 pagine della relazione della commissione si legge che c’è stata “un’anomala, significativa e determinante (negli esiti) collaborazione tra la procura di Caltanissetta e i vertici dell’allora Sisde”.
Strage Borsellino, la relazione finale della Commissione Antimafia
Il secondo aspetto sul quale si concentra il lavoro della commissione Antimafia riguarda la gestione della collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri “sedicenti collaboratori di giustizia”. Un intero capitolo della relazione della commissione è dedicato al ruolo di Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo al quale vennero affidate le indagini su via D’Amelio, così come era accaduto in occasione della strage di Capaci. “Nell’indagine sulla strage di via D’Amelio – si legge nella relazione – ci fu un uso spesso disinvolto e non limpido dello strumento dei colloqui investigativi da parte di La Barbera e degli uomini del gruppo ‘Falcone-Borsellino’. Un uso destinato a ‘vestire il pupo’”.
“Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta”, si legge nelle conclusioni della relazione della commissione regionale Antimafia. “Mai – si legge ancora – alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell’indagine su via D’Amelio”. “Certa – è scritto nella relazione – è anche l’irritualità dei modi (‘predatori’, ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo ‘Falcone-Borsellino’ condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti”.
Via D’Amelio, la strage e i depistaggi: anomalie e prove inconfutabili
”È certo il ruolo – scrivono i deputati dell’Antimafia nella relazione finale approvata all’unanimità – che il Sisde ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. È certa la consapevolezza (ma anche l’inerzia) che si ebbe in procura a Caltanissetta sull’irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge”.
È certo il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – “non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali”. Secondo l’antimafia regionale si va ”ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine ‘Falcone-Borsellino’, Arnaldo La Barbera’.
“Mio padre è stato lasciato solo da vivo e da morto”, ha detto detto una commossa Fiammetta Borsellino. “Nel depistaggio – ha aggiunto – c’è stata una responsabilità collettiva dei magistrati che hanno avuto comportamenti ‘contra legem’ e che ad oggi non sono stati mai perseguiti né sul piano disciplinare né su quello giudiziario. C’è chi ha lavorato nel periodo del depistaggio e dimostrato di non aver capito nulla di mio padre”.
Video: Marcella Chirchio.