Sono passati più di venticinque anni da quando i leaders mondiali, radunati a Rio de Janeiro nel 1992, impegnarono i propri paesi ad evitare pericolose interferenze umane nel sistema climatico, firmando la convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico.
Da allora la questione è diventata molto più urgente. Il livello di diossido di carbonio nell’atmosfera continua a crescere senza sosta. Inoltre le temperature globali medie si sono alzate di un grado rispetto a quelle dell’era preindustriale. Probabilmente questi cambiamenti climatici indotti dall’uomo sono in parte responsabili di alcune recenti catastrofi naturali, dalle inondazioni in Vietnam ai terribili incendi in California.
Se non si fa urgentemente qualcosa a livello mondiale, le cose peggioreranno, forse addirittura in maniera catastrofica. Eppure le tecnologie per dare una svolta ce le abbiamo già.
Grazie alle dighe, al nucleare, all’energia solare e a quella eolica possiamo generare elettricità senza bruciare combustibili fossili. I politici hanno inoltre altri strumenti per portare avanti il cambiamento tra cui regolamenti, sussidi e tasse sulle emissioni di carbonio; stanno infine arrivando nuove innovazioni tecnologiche che potrebbero decarbonizzare il sistema dei trasporti e le produzioni di acciaio e cemento. Eppure, malgrado questi apparenti progressi, alla riunione Onu sul cambiamento climatico svoltasi in Polonia tra il 2 e il 14 dicembre l’atmosfera è stata di profondo pessimismo.
Il problema è ovvio. C’è in ballo buona parte del futuro dell’umanità. Molte soluzioni tecnologiche già ci sono. Allora perché la risposta internazionale è così inadeguata?
Una ragione sono gli interessi dell’industria dei combustibili fossili, dotata di una lobby potentissima soprattutto a Washington. Però la ragione principale è che il mondo non ha mai dovuto affrontare un problema così complesso, e non ha le istituzioni per farlo. C’è anche un’altra questione: coloro che soffrono e soffriranno di più l’impatto del cambiamento climatico sono gli abitanti poveri dell’Africa Subsahariana, dell’America Latina e dell’Asia Meridionale. Coloro che invece dovrebbero modificare il proprio stile di vita ed emettere meno carbonio sono i più ricchi abitanti dell’America Settentrionale, dell’Europa,della Russia, della Cina e del Giappone. Si crea così un oggettivo conflitto di interessi tra due parti dell’umanità.
Un manifestante francese dei Gilets Jaunes vuole evitare gli aumenti del prezzo della benzina nel proprio paese, non certo salvare il campo di un contadino messicano minacciato dalla desertificazione dovuta ai cambiamenti climatici. Per rompere quest’impasse ci vorrebbero leaders politici lungimiranti sia nel mondo ricco che in quello povero. Purtroppo non se ne vedono in giro molti. Intanto i ghiacci marini dell’Artico continuano ad arretrare anno dopo anno, il Sahel africano diventa progressivamente più arido ed inabitabile con tutto ciò che ne consegue anche in termini di migrazioni verso l’Europa, e l’Ovest degli Stati Uniti comincia ad avere serissimi problemi di siccità, desertificazione ed approvvigionamento idrico.