Nove maggio 2018, Montecitorio. Sono le sei del pomeriggio. In genere, a quest’ora, il parlamento è vuoto. Ma non oggi. L’emiciclo, infatti, è confuso, scomposto, ansioso, ma è pieno. Deputati e collaboratori attendono, col fiato sospeso, la decisione di un uomo solo. Con buona pace di quelli che lo consideravano un politico datato, ormai fuori moda.
Sono passati 25 anni dalla sua ribalta, ma Silvio Berlusconi – suggerisce qualcuno – è ancora al centro dell’attenzione politica. All’ex Cavaliere basta una parola. Una parola per benedire il nuovo duopolio in ascesa Lega-M5S, una parola per cestinarlo. Da quella parola, dipendono le sorti dei parlamentari appesi agli smartphone.
Oggi, meno di 24 ore dopo, tutta l’Italia ne è al corrente: Silvio Berlusconi ha compiuto il tanto famigerato passo indietro. FI ha rinunciato a Palazzo Chigi. Con Matteo Salvini, attore principale di questa nuova pièce, il re dei forzisti neppure ci parla più. Così suppone, almeno, il Corriere della Sera, riferendo del ruolo di Giorgetti come tramite tra Arcore e via Bellerio.
Oggi è il 10 maggio. E non sappiamo più se il centrodestra esista o meno. Dell’esistenza di questa coalizione, tutti, a Palazzo Grazioli come ad Arcore, dubitano probabilmente fin dal 5 marzo, o addirittura dagli exit-poll delle 23.30 del giorno prima. Del resto, senza l’egida del loro storico Presidente, è difficile per i forzisti e per moltissimi italiani (certo, sempre di meno) immaginare un centrodestra unito. I legami col Carroccio si sgretolano sempre più intensamente. I ponti restano sulla formazione dei governi regionali, e non certo per stima reciproca. Perché è noto, Berlusconi – se ce l’ha mai avuta – ha perso ogni stima per il leader leghista.
La resa del Silvio nazionale, ad ogni modo, il tanto discusso e commentato passo indietro, consegna l’Italia alla prima maggioranza “putiniana” nella storia del paese, al governo meno istituzionale di sempre. E, secondo l’ex Cavaliere, anche al meno competente di sempre. Da Genova, arriva la formula-mantra con cui FI dovrebbe guardare al nuovo esecutivo. La definizione del giorno, infatti, è di quel Giovanni Toti, ex socialista e delfino di Berlusconi, che FI ha posto a governare la Liguria. “Lega e 5 stelle hanno i voti per un accordo di governo, a cui Forza Italia non parteciperà”, annuncia Toti, ribadendo la fermezza del rifiuto. Eppure, prosegue: “Ciò non esclude che si possa guardare a questa esperienza con benevolenza critica”. Ebbene, questa (presunta) benevolenza critica avrebbe salvato l’Italia dalla deludente prospettiva di un voto a luglio e avrebbe assicurato le vacanze a deputati e cittadini. Anche a quelli del Sud che, secondo la discutibile dichiarazione di ieri della forzista Biancofiore, non potrebbero permettersi di andare in vacanza. Ma torniamo a Berlusconi.
A quanti hanno l’impressione che Berlusconi stia schiacciando l’occhio ad un esecutivo a cui non starebbe partecipando solo ufficialmente, Arcore risponde senza mezzi termini. Il suo lasciapassare è algido come il suo rapporto con Salvini. “Non saremo l’alibi di un eventuale fallimento”. Così scrive l’ex Cavaliere nella nota firmata FI. Cadono i veti, ma non cadono in silenzio. “Facciano il governo, se ne sono capaci”. Benevolenza critica, si diceva.
Eppure, ci sembra proprio che Berlusconi abbia ritenuto la platea più comoda del palcoscenico. Anzi, pare che si accomoderà sul palco reale, da dove potrà giudicare – sempre con benevolenza critica, per carità – un eventuale (inflazionatissimo tra Arcore, Palazzo Grazioli e piazza San Lorenzo) fallimento delle insegne giallo-verdi. Del resto, il Cavaliere si considera un moderato. Pretendeva di essere l’unico argine al cosiddetto populismo dei vincitori, a destra e tra le 5 stelle dei grillini. La diarchia Salvini-Di Maio potrebbe essere una scheggia impazzita che Silvio Berlusconi ha tutto l’interesse a guardare dall’esterno.