Abbracci, applausi, urla di giubilo. Così, venerdì 21 aprile, l’aula bunker del Pagliarelli scrive la storia e festeggia una sentenza che sarebbe riduttivo definire memorabile. Ci vogliono quasi 8 minuti per scriverla, questa versione della storia. 8 minuti con cui il giudice Montalto condanna a 12 anni di carcere Mori, Subranni, Dell’Utri, Cinà. 8 minuti per svelare la verità sul patto di sangue tra l’Italia e la Mafia. Un patto che, mentre mieteva vittime innocenti, secondo i giudici, apriva ai corleonesi la strada di Palazzo Chigi.
La memorabile sentenza lega Cosa Nostra al governo italiano. E irrompe in uno scenario di grande incertezza politica. Il pm, Vittorio Teresi, si commuove, accolto dagli applausi della folla e dedica questa vittoria della verità agli eroi che hanno mirato al cuore di Cosa Nostra. E quello di Teresi è solo il primo dei numerosissimi commenti che la Corte d’Assise di Palermo ha agitato. L’ultimo a intervenire è il procuratore nazionale Antimafia. “Certi soggetti politici hanno legittimato la mafia”, afferma con convinzione Cafiero De Raho ai microfoni di Radio24.
Palermo chiama e Roma risponde. I primi commenti politici alla sentenza sono grillini e si muovono, tutti, all’attacco di Berlusconi. Sibilia, Di Maio, Di Battista: il M5S chiede che l’ex Cavaliere scompaia dalla scena politica nazionale. “Ѐ ridicolo accostarmi alla sentenza”, reagisce il presidente di FI, il partito che ha fondato insieme a Marcello Dell’Utri, condannato a 12 anni dai magistrati di Palermo. Ridicolo, infatti. Le ragioni del verdetto faranno luce sulle ceneri della Prima Repubblica. E sulla nascita della Seconda, costruita sopra le macerie di Capaci e di via D’Amelio, all’alba del primo governo Berlusconi. Era il 1994. E le stragi di mafia si erano casualmente concluse poco prima.
Forza Italia intanto, provocata, si difende. E annuncia una querela per Nino Di Matteo, sostituto procuratore titolare dell’inchiesta sulla Trattativa. I vertici di piazza San Lorenzo in Lucina, infatti, non possono accettare le parole con cui Di Matteo si è espresso ieri, ospite alla scrivania di Lucia Annunziata. “Oggi la correlazione con Cosa nostra non riguarda il Silvio Berlusconi imprenditore ma il Silvio Berlusconi politico”, ha affermato il procuratore. E, a Palazzo Grazioli, non perdono tempo ad additare come pregiudizievole una sentenza che rischia di ri-gettare Berlusconi nell’occhio del ciclone. E, sulla scia dello scontro al vetriolo che si consuma tra il loro presidente e il M5S, tacciano di grillinismo i magistrati palermitani.
Dopo qualche giorno, il dibattito è sempre più attuale. Ieri sera, Fabio Fazio apre Che tempo che fa con le parole di Giorgio Napolitano. Il senatore a vita sembra non voler entrare nel merito di una sentenza di cui non si conoscono ancora le motivazioni. Eppure, qualche dichiarazione Napolitano vuole rilasciarla. “Il punto che ho apprezzato di più è stata l’assoluzione del senatore Mancino per non aver commesso il fatto”, afferma. E, di fronte ad un verdetto di questa portata, un presidente emerito interviene a lodare una simile postilla. Chissà se questo significa qualcosa. Intanto, nella stessa trasmissione, si fa largo Marco Travaglio che, dei legami tra Berlusconi e Cosa Nostra, si è sempre detto abbastanza sicuro. Il direttore de Il Fatto Quotidiano – a differenza di Napolitano – entra nel merito e menziona Borsellino. “Lo stato dichiara guerra alla Mafia, mentre la Mafia dichiara guerra allo Stato”, esordisce il giornalista e prosegue: “Poi lo Stato si accorda con la mafia”. Sembra evidente, quindi, che i pezzi dello Stato che contrastavano con la mafia andassero sacrificati. “Così Borsellino fu sacrificato sull’altare di quella trattativa”, conclude Travaglio.
L’ultimo ad intervenire – come si diceva – è Cafiero De Raho. “La sentenza dà certezza della ricostruzione della verità”, asserisce. Tutta l’Italia, insomma, attende di leggere le motivazioni di un verdetto implacabile che ha commosso Teresi, riabilitato Di Matteo, reso giustizia a centinaia di vittime innocenti. Tutta l’Italia, adesso, si chiede quanto intensamente il sangue di via D’Amelio e di Capaci macchi il travertino di Palazzo Chigi.