A Palermo si tiene l’udienza del processo sulla trattativa Stato-Mafia, avviato nel maggio 2013, davanti alla Corte d’assise per eventuali repliche e controrepliche. Dopo le brevi dichiarazioni spontanee dell’ex ministro Nicola Macino, imputato di falsa testimonianza, la Corte d’assise palermitana si è ritirata in camera di consiglio per decidere il verdetto finale nei confronti dei nove imputati tra boss mafiosi, ex vertici del Ros ed ex politici.
Le battute finali del processo Stato-Mafia
Sembra che i toni utilizzati in aula in questi anni abbiano, qualche volta, superato il limite. “Abbiamo riflettuto a lungo e dopo lunghe discussioni, all’interno del nostro ufficio, abbiamo deciso di non fornire repliche. Ci sono state tuttavia espressioni estreme e inopportunamente polemiche da parte delle difese che hanno travalicato la dialettica processuale. Questa dialettica non ci appartiene e la respingiamo”. Queste le parole del procuratore aggiunto Vittorio Teresi all’apertura dell’udienza, presente in aula anche il sostituto procuratore Roberto Tartaglia. L’avvocato Basilio Milio ha così ribattuto davanti alla Corte d’assise, presieduta da Alfredo Montalto: “Si è parlato di espressioni estreme e asseritamente diffamatorie nei confronti della procura. Se così sono state percepite, me ne scuso”.
Accanto ai suoi difensori, presente in aula anche il senatore Nicola Macino, che ai microfoni dei cronisti ha ricordato il suo stato d’animo in questi anni di dibattimento.”Ho sofferto per tutto questo periodo – ha detto – e soffro ancora pur essendo consapevole di avere sempre detto la verità. Non ho mai commesso il reato di falsa testimonianza”. A Macino, accusato di falsa testimonianza, ha fatto eco il suo avvocato Nicoletta Piromallo: “Per lui è stata molto dura – ha detto il legale -. Qui si è tentata una ricostruzione storica, la corte ora ha gli elementi per valutare le risultanza processuali”.
I pm di Palermo hanno intercettato anche le telefonate tra Macino e l’ex consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio, nelle quali l’ex ministro cercava di evitare un confronto richiesto dalla Procura nel corso di un altro processo a Mori, con l’ex guardasigilli Claudio Martelli. “A posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D’Ambrosio – precisa Nicola Mancino -. Ero preoccupato, eravamo in piene bufera giornalistica”.
Secondo l’accusa, le intercettazioni telefoniche proverebbero il timore di Macino di affrontare, davanti al tribunale, l’ex collega, che aveva dichiarato di aver palesato già nel 1992 il suoi dubbi in merito alla correttezza dell’operato del Ros. “Per me era un confronto inutile – ha aggiunto Macino -. E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l’avocazione dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ma solo il coordinamento dell’azione delle sei procure coinvolte nell’indagine. Basti pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla Procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta”.
Tra i nove imputati, accusati a vario titolo di minaccia a Corpo politico dello Stato, concorso in associazione mafiosa e calunnia, anche boss come Leoluca Bagarella, pentiti, Massimo Ciancimino, Marcello Dell’Utri ed ex vertici del Ros come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.