Le storie di mafia in Sicilia sono (quasi) sempre storie di amministrazione. Come la storia di Ignazio Cutrò, l’imprenditore agrigentino che ha fatto arrestare e condannare i suoi estorsori. I boss e i gregari della cosca di Bivona, dove vive. Ma il 9 aprile scorso, qualcuno – ai piani alti del Viminale – ha deciso che Ignazio Cutrò non ha più bisogno della scorta.
Non è più in pericolo di vita, Ignazio Cutrò. Del resto, solo due mesi fa, i carabinieri avevano intercettato una conversazione tra capi-cosca che lo condannava a morte: “Appena lo Stato si stanca… che gli toglie la scorta poi vedi che poi…”. Nessun pericolo di vita, si diceva.
Cutrò “abbandonato” da “chi mi doveva proteggere”
Non è un romanzo di Sciascia. Benché i vari personaggi coinvolti si impegnino perché lo sembri. Ѐ tutto paradossale, ma è vero. Autentico come lo sfogo di Cutrò. “Sono un morto che cammina”, denuncia il testimone di giustizia. E mentre rivendica protezione, per sé e per la sua famiglia, lo Stato smonta (addirittura) le telecamere di sorveglianza dalla sua casa. “Sono stato accoltellato alle spalle da chi mi doveva proteggere”, prosegue Cutrò, ancora incredulo. Non avrà più neppure i vetri blindati sull’auto. E la sua famiglia resterà senza alcuna tutela. Solo due settimane fa, d’altronde, venivano scarcerati alcuni tra quelli che Cutrò avevava mandato in carcere. Paradossale, ma vero.
L’ex imprenditore di Bivona non si dà pace: “Che messaggio vuole mandare lo Stato con questa decisione?”, si domanda. Forse che “si è stancato”, come si poteva udire nelle intercettazioni tra boss o forse che non si è ancora stancato di piangere i suoi morti.