Mia madre non voleva che andassimo a Londra. Da quando io e mio fratello siamo andati via di casa per affrontare la vita universitaria, lei si è fatta progressivamente più ansiosa e, una volta saputo che saremmo partiti per questi ultimi giorni di vacanze estive, non ha mancato di manifestare tutto il suo disappunto, per la paura che ci trovassimo nel mezzo di un attentato terroristico.
Posso immaginare come si sia sentita, ieri mattina, quando ha saputo dell’esplosione alla stazione della metropolitana di Parsons Green. Per fortuna, eravamo ben lontani dalla zona dell’attentato, e la nostra giornata ne è stata condizionata solo in maniera marginale.
Qualche messaggio dai parenti e dagli amici più stretti per sapere se andasse tutto bene, dei poliziotti in più a pattugliare le stazioni della metro, specialmente quelle ad ovest della City, l’edizione del London Evening Standard, sfogliata nel tragitto che portava alla mostra sui Pink Floyd al Victoria & Albert Museum che raccoglieva le prime informazioni, particolarmente allarmanti sull’accaduto.
Si percepiva, però, sui volti dei londinesi, tutta la preoccupazione di chi non si trova qui per qualche giorno, ma ormai da mesi, dopo il tentato attacco a Westminster di fine marzo, vive nell’insicurezza. E non sono i 29 feriti – secondo gli ultimi dati ufficiali – o l’annuncio di aver identificato il colpevole a fare la differenza in un senso o nell’altro.
La paura, alimentata dai fatti di Manchester e, pur in assenza di una qualsiasi matrice terroristica, dalla catastrofe della Grenfell Tower, ha attecchito rapidamente sulla gente di Londra e sarà difficile portarla via.