Nel corso della campagna elettorale del 2016 Donald Trump ha promesso che avrebbe rivoluzionato la politica estera del paese all’insegna dell’”America first”; basta con le folli guerre in medio oriente, basta con i miliardi spesi per gli alleati europei della Nato, basta con il NAFTA, l’accordo commerciale con Messico e Canada. Così tuonava nei comizi in giro per gli States.
Dopo la sua vittoria elettorale, e a 8 mesi di distanza dal suo insediamento da presidente Usa il 20 gennaio 2017, credo sia arrivato il momento per fare un primo bilancio della politica estera dell’amministrazione Trump. Lo farò da un punto di vista particolare: elencherò quei paesi e quei leader stranieri che a mio giudizio hanno beneficiato di più delle politiche “trumpiane”.
1) I tradizionali alleati dell’America in medio oriente
Si tratta di quattro paesi dell’area: Israele, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Il primo ministro israeliano Netanyahu, dopo 8 anni passati a litigare con Barack Obama, è riuscito finora a sviluppare un ottimo rapporto con Trump, che sa che la propria base elettorale repubblicana è fortemente pro-israeliana. L’autocrate egiziano Al-Sisi è stimato da Trump come baluardo contro l’instabilità politica e il terrorismo. I principi sauditi beneficiano del fatto che Trump ne condivide la diffidenza nei confronti dell’Iran. Gli emiri di Dubai ed Abu Dhabi hanno legami finanziari con l’azienda di famiglia dei Trump e dunque sono trattati con un occhio di riguardo dalla nuova amministrazione Usa.
2) Merkel e Macron
La leader tedesca e il giovane neopresidente francese sono oggettivamente favoriti sul piano interno da una presidenza Trump, perché i tweet aggressivi e gli eccessi retorici del presidente americano su temi quali immigrazione, cambiamento climatico e commercio internazionale li fanno apparire agli occhi delle opinioni pubbliche tedesca e francese come leaders responsabili su cui l’Europa può contare in un momento in cui il grande protettore d’oltreatlantico sembra aver perso la testa.
3) L’India
Il leader indiano Modi e Trump si sono già incontrati più volte, si ammirano e si apprezzano. Hanno parecchie cose in comune: la diffidenza verso l’ascesa economica e militare della Cina, un certo sentimento anti-islamico e anti-pakistano e più in generale una visione nazionalista e muscolare delle relazioni internazionali. Attendiamoci dunque nei prossimi anni un rilancio dei rapporti tra le più grandi democrazie al mondo.
4) Il presidente filippino Rodrigo Duterte
Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine dalle forti tendenze autocratiche, ha lanciato da mesi una brutale campagna per sradicare il traffico di droga dal proprio paese: la polizia filippina e vigilantes privati hanno ucciso migliaia di veri o presunti spacciatori. Qualunque precedente presidente Usa avrebbe condannato queste violazioni dei diritti umani. Trump invece no, ha telefonato al leader filippino dicendogli: ”Volevo semplicemente congratularmi con lei per l’ottimo lavoro che sta svolgendo sul problema della droga”.
5) Il gruppo di Visegrad
Del gruppo di Visegrad fanno parte quattro paesi dell’Est Europa membri dell’Ue: la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Polonia e l’Ungheria. Sono accomunati dal fatto di avere leaders con preoccupanti tendenze anti-democratiche, da una forte diffidenza verso Bruxelles e dal rifiuto di accogliere sui propri territori rifugiati di fede musulmana. Hanno trovato in Trump un grande alleato, che ne condivide la diffidenza per gli immigrati islamici e il disprezzo per gli eurocrati di Bruxelles. Non è un caso dunque che il governo polacco abbia tributato un accoglienza trionfale a Trump in occasione della sua visita di stato a Varsavia.