Il 15 luglio del 2017, nella città statunitense di Minneapolis, la più importante del Minnesota è successa una tragedia. Una donna di origine australiana, Justine Ruszczyk, appena quarantenne, è morta; è stata uccisa a colpi di pistola da Mohamed Noor, un agente del dipartimento di polizia cittadino, di origine somala.
Era stata lei stessa a chiamare la polizia verso le undici di sera dopo aver sentito rumori sospetti fuori la propria abitazione; cosa sia successo di preciso è ancora da chiarirsi, ma secondo il Minnesota Bureau of Criminal Apprehension, che sta investigando sui fatti, poco dopo la chiamata della Ruszczyk, una macchina della polizia con a bordo l’agente Noor e il giovane collega Matthew Harrity è arrivata sul posto, trovando ad attenderli la Ruszczyk in pigiama davanti la propria casa.
A questo punto scatta il dramma :secondo la testimonianza di Harrity, lui e il collega hanno sentito improvvisamente un forte rumore, Justine si è avvicinata al finestrino della macchina e il collega Noor le ha sparato alcuni colpi all’addome uccidendola. Justine nata a Sidney da padre americano e madre australiana,aveva la doppia cittadinanza.
Si era trasferita negli Stati Uniti alcuni anni fa, per seguire il fidanzato americano Don Damond, con cui si sarebbe dovuta sposare ad agosto alle Hawaii. Lavorava come coach di meditazione.La sua morte tragica ha scioccato amici e parenti australiani e ha trovato ampio risalto sui media di Sidney e anche statunitensi. Il padre, qualche giorno dopo il dramma, ha rilasciato una dichiarazione ai media, chiedendo che “la luce della giustizia illumini la morte di mia figlia”.
Ovviamente questo caso ha rilanciato negli Stati Uniti il dibattito sulla violenza della polizia e sulle morti che essa causa. Dal 2009 ad oggi negli Usa la polizia ha ucciso oltre 3000 persone. Peraltro, anche se nel caso di Minneapolis i ruoli erano curiosamente invertiti, spesso si tratta di agenti bianchi che uccidono afroamericani. Particolare scalpore suscitò nel 2014 il caso del giovane afroamericano Michael Brown, ucciso a colpi di pistola dall’agente bianco Darren Wilson nella cittadina di Ferguson in Missouri.
Ne seguirono giorni di caos in questa cittadina a prevalenza afroamericana, povera e con un alto tasso di criminalità. Migliaia di giovani afroamericani si scontrarono in piazza con gli agenti del dipartimento di polizia cittadino. Per molti il problema dell’eccessivo uso della forza da parte degli agenti di polizia statunitensi è intimamente legato alla questione delle leggi troppo lassiste sul possesso di armi da fuoco.
Gli agenti Usa operano in un contesto molto diverso da quello europeo, un contesto in cui circolano milioni di armi da fuoco, talvolta in mano a criminali o a persone con disturbi psichici. Perciò non stupisce che un agente che opera in una città americana si senta in costante rischio di vita, e possa talvolta, preso da ansia e paura, usare le proprie armi in maniera impropria. Qui sta la radice di tante tragedie come quella di Minneapolis, di tante giovani vite spezzate che hanno lasciato questo pianeta per sempre.