La maggior parte dei commentatori è d’accordo nel sostenere che la fine della battaglia di Mosul non conclude certo la guerra contro l’Isis. Il gruppo ha ancora a sua disposizione migliaia di jihadisti pronti a lanciarsi in attacchi suicidi sia nelle città siriane e irachene che in occidente. Di un altro rischio però si parla molto meno. Gli iracheni stessi potrebbero infatti ripiombare nella guerra civile ora che è terminata la necessità temporanea dell’unità contro l’Isis.
Tre anni di guerra contro gli estremisti islamici hanno creato un senso nazionale di urgenza che ha superato le barriere etniche e settarie. Ora però antiche tensioni potrebbero rinascere. Uno di questi vecchi problemi iracheni è chiaramente peggiorato da quando l’Isis è sorto e ha preso Mosul nel 2014. Nei primi mesi della lotta per evitare che i jihadisti si impadronissero anche di Erbil, la capitale del governo regionale curdo, le forze curde occuparono vaste aree della piana di Ninive a est di Mosul, a lungo oggetto di disputa fra arabi e curdi. Lo stesso successe nella provincia di Kirkuk, ricchissima di petrolio. Secondo la costituzione dell’Iraq post-Saddam, il destino di queste aree doveva essere deciso in un referendum che è stato ripetutamente rimandato. Ora ci sono nuovi fatti sul terreno.
Mentre fino al 2014 era Baghdad che controllava le aree contese e aveva un interesse a rimandare ogni cambiamento, i curdi ora occupano la zona e sono in una posizione dominante. Ciò esacerberà le divisioni già esistenti su come l’Iraq debba spartire i propri proventi petroliferi e il budget federale fra la regione curda e il resto del paese. Il secondo grande problema è il rischio di violenza fra arabi sunniti e sciiti. Nel 2014 l’Isis potè occupare facilmente Mosul perchè la popolazione in gran parte sunnita della città si sentiva abbandonata dal governo centrale di Baghdad. La sfida adesso è scegliere un nuovo governo locale per Mosul che ponga termine al senso di alienazione degli abitanti sunniti della città. Baghdad deve anche trovare velocemente le risorse per ricostruire la città devastata dai bombardamenti e aiutare una popolazione traumatizzata da anni di combattimenti.
La buona notizia è che diversi leader iracheni riconoscono il problema. Il primo ministro del paese, Al Abadi, si è dimostrato più sensibile e inclusivo del predecessore Al Maliki. Dalla sua dimora di Najaf anche il leader sciita Moqtada Al-Sadr fa dichiarazioni concilianti e si dimostra preoccupato per il futuro del paese: ”Sono molto fiero della diversità della società irachena. La mia grande paura è che potremmo assistere al genocidio di un gruppo etnico o settario”. Ha anche proposto una serie di visite di leader sciiti alle aree sunnite e viceversa, per calmare le tensioni interconfessionali ed avviare un dialogo sulla ricostruzione nazionale.
Un grande problema è costituito dalle milizie sciite che sono state create a partire dal 2014 per combattere l’Isis; per evitare che creino instabilità e tensioni nel paese andranno disarmate e i loro membri inquadrati nell’esercito regolare iracheno. Insomma, molti iracheni stanno col fiato sospeso riguardo al futuro del proprio paese, terrorizzati da un ritorno alle violenze intercomunitarie degli anni 2004-2011, seguite alla disastrosa invasione americana ordinata da Bush. Infine su tutto si staglia minacciosa anche la rivalità regionale fra la sunnita Arabia Saudita e lo sciita Iran, che peserà senza dubbio sul futuro politico di Baghdad.