Fra il 5 e il 10 giugno del 1967 l’esercito israeliano affrontò e sconfisse gli eserciti di Giordania, Egitto e Siria e occupò Gerusalemme Est, la Cisgiordania, le Alture del Golan, la Striscia di Gaza e il Sinai. A cinquant’anni di distanza, le conseguenze di questo conflitto si fanno ancora sentire; la guerra cominciò con un attacco preventivo israeliano contro l’aviazione egiziana, in risposta alla decisione del Cairo di interdire gli stretti di Tiran alla navigazione israeliana. Poi la Giordania e la Siria entrarono in gioco, prendendo la disastrosa decisione di venire in soccorso degli egiziani.
Questa guerra pose fine al sogno arabo di poter eliminare dal Medio Oriente lo stato ebraico. La vittoria del 1967 ha reso Israele uno stato “permanente”, a differenza delle precedenti guerre del 1948 e del 1956. Il nuovo stato aveva finalmente acquistato profondità strategica. In seguito alla guerra dei sei giorni la maggior parte dei leader arabi cambiò obiettivo: non si trattava più di cancellare Israele ma di farlo tornare alle frontiere del 1949. In ogni caso la guerra del 1967 non portò alla pace; per quella si dovette attendere un altro conflitto arabo-israeliano, quello del 1973, che portò agli accordi di Camp David del 1978 e al trattato di pace israelo-egiziano.
In ambito diplomatico, la guerra dei sei giorni diede come risultato la risoluzione 242 del consiglio di sicurezza dell’Onu, approvata nel novembre 1967. Essa chiedeva a Israele di ritirarsi dai territori occupati nel conflitto, riconoscendo però al contempo il diritto israeliano ad avere confini sicuri e difendibili. Insomma, un capolavoro di ambiguità, che finora non si è tradotto in nulla di concreto. Dunque non c’e’ ancora pace fra israeliani e palestinesi, malgrado i continui sforzi diplomatici degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, dell’Onu e delle parti stesse. Il 1967 ha paradossalmente permesso ai palestinesi residenti a Gaza e in Cisgiordania di acquisire una più forte identità nazionale e ha attirato su di loro una forte attenzione internazionale.
Per quanto riguarda gli israeliani, hanno restituito il Sinai all’Egitto fra il 1979 e il 1982, hanno firmato un trattato di pace con i giordani nel 1994 e si sono ritirati da Gaza nel 2005 ma non paiono avere alcuna intenzione di restituire il Golan alla Siria e di permettere la nascita di uno stato palestinese in Cisgiordania. Peraltro Golan, Cisgiordania e Gerusalemme Est sono oggi abitati da centinaia di migliaia di cittadini israeliani, residenti in insediamenti considerati illegali dalla comunità internazionale ma legittimi dal governo israeliano. I palestinesi non hanno un proprio stato, vivono in condizioni economiche disastrose e non controllano le proprie vite, oppresse dall’occupazione militare israeliana. L’obiettivo israeliano di essere un paese ricco, democratico, sicuro ed ebraico è minacciato da un’occupazione senza fine e dalla crescita demografica palestinese. Per quanto riguarda il resto del mondo, ha altro a cui pensare (Siria, Isis) e dunque, nel cinquantesimo anniversario di un conflitto di fondamentale importanza, per capire il Medio Oriente contemporaneo, preferisce stare a guardare.