La storia dei terremoti nell’Italia centrale è accomunata da un unico filo rosso. È l’Appennino, con le sue fratture attive che si allungano lungo l’asse della catena e creano terremoti con ipocentri generalmente superficiali. Il professor Giuseppe Giunta, ordinario di “Geologia strutturale”, già docente dell’Università di Palermo, ha chiarito il perché della “somiglianza” tra il terremoto che ha messo in ginocchio il Rietino e quello che nel 2009 devastò L’Aquila: “La maggior parte, come quello dell’Aquila, hanno la stessa caratteristica. Ovvero avvengono lungo fratture allungate in direzione appenninica, hanno ipocentri superficiali come profondità di rilascio dell’energia”.
“Per avere una magnitudo di questo tipo ci devono essere delle faglie che nella crosta terrestre si allungano per 30-40 chilometri di lunghezza, e prevedono una serie di repliche che possono verificarsi per molto tempo – spiega il professor Giunta – C’è da tenere in considerazione che un sisma può anche innescare dei disequilibri in faglie vicine o relativamente lontane. Questo è un pericolo, è anche possibile che alcuni terremoti nelle zone adiacenti siano dovuti all’attivazione di altre faglie”.
La possibilità di una recrudescenza sismica nei prossimi giorni c’è sempre: “Lo sciame sismico sta continuando con decine di terremoti, che avvengono a distanza di pochi minuti. Questo durerà per un po’ di tempo, per mesi o addirittura anni. C’è da aspettarsi che il massimo dell’energia sia stata dissipata nell’evento principale e che non ci siano delle repliche della stessa entità, o addirittura superiori”.
La conta dei danni è ancora in corso, ma ecco che il tema della prevenzione torna attualissimo. Ci si può proteggere? Il Giappone può essere un modello? “La prevenzione, non c’è dubbio, si fa in maniera diversa da paese a paese. Per quello che riguarda il Giappone siamo in condizione geodinamiche diverse dall’Appennino o dall’Italia. È un tessuto urbanistico diverso. A Fukushima, una scossa prossima a 9.0 ha creato un disastro immane che neanche i giapponesi sono riusciti a controllare”.
“In Italia c’è un’urbanizzazione antichissima in territori collinari o di montagna – puntualizza il professore Giunta – con centri storici molto antichi e importanti dove bisogna affrontare costi enormi. Se si dovesse per assurdo cominciare una prevenzione radicale, mettendo a disposizione tutte le risorse, non si raggiungerebbe il massimo della protezione prima di parecchi anni. Già ci sono delle azioni di prevenzione in atto nel nostro paese, ma sono azioni legate alle nostre capacità finanziare. Si agisce in parte sulla base di quelle che sono le zone con maggiore rischio, agendo con interventi mirati alla cosidetta mitigazione del danno”.
A cosa deve prepararsi la popolazione colpita dal sisma della scorsa notte? “Una volta avvenuto questo choc, il tutto dovrebbe andare a decrescere nel tempo e nella magnitudo, ma continueranno le repliche, o scosse di assestamento. In provincia di Perugia ce n’è stata una di 5.0 circa, ce n’è stata un’altra di 4.6 nella provincia di Rieti. Parliamo di repliche abbastanza forti. In un edificio parzialmente danneggiato, è chiaro che una replica di questo tipo lo butta giù“.
Insomma, c’è da augurarsi che ci siano delle repliche “non troppo forti”. “Potrebbe avvenire e non possiamo escluderlo un evento che sia superiore alla scossa principale – chiosa il professor Giunta – Questo non si può escludere o perché si attiva una faglia vicino a quella che ha prodotto il terremoto oppure perché non tutta l’energia dissipata è stata rilasciata”.
La zona a rischio rimane comunque circoscritta: “Nella catena appenninica molte faglie generano terremoti piuttosto superficiali come profondità ipocentrale, e hanno caratteristiche di movimenti comuni, in parte differenti con le regioni alpine o con la Sicilia e la Calabria meridionale, con le quali non c’è una relazione diretta, pur appartenendo allo stesso sistema geodinamico”.