Nato a Corleone, in provincia di Palermo, il 31 gennaio 1933, Bernando Provenzano aveva diversi soprannomi: Detto zu’ Binnu o Binnu, ma anche ’u Tratturi, e ‘u Ragiunieri. Sposato con Saveria Benedetta Palazzolo due figli, Angelo (del 75) e Francesco Paolo (dell’82), era detenuto al 41 bis dall’11 aprile 2006 (dopo una latitanza di 43 anni). È morto a ottantatrè anni, dopo una lunga malattia: da quasi due anni era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano in stato quasi vegetativo.
Ha iniziato la sua carriera criminale nelle file di Cosa Nostra “arrolandosi” insieme a Totò Riina, detto ’u Curtu, e Calogero Bagarella, detto Calò, nella banda dei masculiddi agli ordini di Luciano Liggio, luogotenente del capomafia Michele Navarra.
Nel 1981, con Riina, inizia lo sterminio dei mafiosi palermitani vecchia guardia. Finita la guerra, nel 1983, è delegato da Liggio a far parte di un triumvirato provvisorio per governare Cosa Nostra (Liggio, Provenzano, Riina). Lo rivela il superpentito Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone nell’84. Anche lui, come Riina, in seguito alle dichiarazioni di Buscetta e ai riscontri trovati dal giudice Giovanni Falcone, viene condannato all’ergastolo in primo grado nel maxiprocesso, il 16 dicembre 1987, sentenza confermata fino alla Cassazione, il 29 gennaio 1992.
Dopo l’arresto di Totò Riina, Bernardo Provenzano diventa capo di Cosa Nostra. Secondo quanto dichiarò in seguito Massimo Ciancimino fu proprio Provenzano a provocare l’arresto di Totò Riina, autorizzando Vito Ciancimino a svelare il suo nascondiglio ai carabinieri.
Ricercato dal 9 maggio 1963 da tutte le forze dell’ordine, un vero e proprio professionista della clandestinità. Antonio Giuffrè, ex braccio destro di Provenzano, poi pentito, lo ha descritto come un uomo “firrignu”, forte, “capace di dormire per più notti nel sacco a pelo”. Ed è sempre lui a spiegare ai magistrati la strategia che ha permesso la sua latitanza per quasi mezzo secolo: “Non usa telefoni perché sa che ogni segnale potrebbe svelare il suo nascondiglio”. Per dirigere i suoi affari miliardari usava i “pizzini”, cioè i bigliettini di carta mandati ai destinatari da uomini di fiducia. Un sistema arcaico ma capillare che ha permesso a Provenzano di controllare tutte le attività della mafia.
I “pizzini” erano delle vere e proprie lettere, anche di più pagine, redatte a mano o a macchina, su un foglio bianco, talvolta azzurrino, oppure giallo a quadretti, sempre della stessa misura, chiuse a soffietto e ridotte, appunto, a un pizzino (con parte del foglio bianco al fondo, da usare come custodia su cui scrivere il codice del destinatario). Li sigillava con scotch trasparente, in modo che il postino potesse leggere il codice ma non il contenuto del messaggio. Immancabile, in chiusura di ogni pizzino, l’invocazione della benedizione divina.
Viene arrestato dopo 43 anni di latitanza alle 11,15 dell’11 aprile 2006, in un casolare intestato al pastore Giovanni Marino, in contrada Montagna dei Cavalli, a meno di due chilometri dalla casa dove vive la famiglia: aveva 73 anni. La svolta delle indagini è stata una telefonata intercettata nella primavera 2005. Di intercettazione in intercettazione gli investigatori identificano le staffette (dieci), che rifornivano “Binnu” di cibo e biancheria.
Trasferito dal carcere di Parma a quello di Opera, dal 9 aprile 2014, è stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano per patologie neurologiche dove è rimasto fino alla morte.