“Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”. Così si esprimeva Papa Francesco, sull’aereo di ritorno da un viaggio pastorale in Corea del Sud nell’agosto del 2014. L’espressione di Francesco ha creato scalpore e forse era proprio quello l’obiettivo del Papa: risvegliare le opinioni pubbliche occidentali dall’apatia di fronte agli sconvolgimenti geopolitici che stanno squassando ampie regioni del pianeta.
Ma c’è un rischio reale che oggi scoppi un conflitto mondiale, paragonabile alle devastanti guerre mondiali del ventesimo secolo? Secondo Ian Bremmer, politologo americano fra i più ascoltati, fondatore dell’istituto di studi strategici Eurasia e columnist del Times, il rischio è minimo: ”E’ virtualmente impossibile che le grandi potenze si combattano direttamente in una terza guerra mondiale: troppi sono i legami economici”.
Per avere un’idea, la Cina detiene oltre 2.000 dei 13.000 miliardi di dollari di debito pubblico americano; il 20% dell’export cinese va in USA, per un controvalore di 500 miliardi annui e sono centinaia le aziende americane che hanno delocalizzato in Cina la loro produzione. Insomma, un colpo al nemico sarebbe un danno anche per chi lo infligge. “E poi – continua Bremmer – le grandi potenze mondiali sono tutte potenze atomiche e i costi di una guerra su larga scala in termini di vite umane sarebbero troppo elevati”.
Peter W. Singer e August Cole non sono d’accordo con l’ottimismo di Bremmer; esperti di strategia militare americani, il primo è membro dell’Istituto Burlington di Washington, un think tank tra i più ascoltati al mondo, l’altro è un esperto di politiche di difesa e sicurezza e columnist del Wall Street Journal. Hanno scritto un romanzo – Ghost Fleet – che racconta una devastante guerra fra Cina e Stati Uniti nell’oceano pacifico del 2025. Commentando il suo libro, Singer afferma che “la Storia dimostra che nel 73% dei casi in cui grandi potenze sono sorte, ne è seguita una guerra … USA e Cina si osservano, quando definiscono le strategie di riarmo”.
Allargando il discorso al composito panorama internazionale, i due autori commentano che ”la grande politica di potenza è tornata”, riferendosi alle tensioni in Ucraina e nel mar Cinese Meridionale, ”negli ultimi due decenni, ci siamo preoccupati soprattutto dei conflitti locali, come l’Afghanistan, la Sierra Leone e la Siria, ma un incidente può provocare un conflitto di grandi proporzioni fra la Nato e la Cina o la Russia”.
E’ lo stesso Bremmer ad ammettere che ”senza alcun dubbio siamo comunque entrati nel periodo di maggiore turbolenza geopolitica dalla fine della seconda guerra mondiale, con molti stati falliti e milioni di rifugiati nel grande Medio Oriente”. E non bisogna essere esperti di geopolitica per osservare che c’è una situazione di grave e diffusa tensione internazionale: dall’Ucraina alla Libia, dalla Siria alla Corea del Nord alle dispute territoriali tra Cina e Giappone, si moltiplicano conflitti e pericolosi attriti. Gli elementi prevalenti di questo scenario d’instabilità sono la frammentazione conseguente alla crisi dell’autorità statuale in vaste regioni del pianeta e l’acuirsi dei contrasti tra potenze regionali e superpotenze globali.
Lo sgretolamento dell’autorità statale è fotografato con efficacia da “The Fund for Peace”, un istituto no profit che promuove la sicurezza sostenibile e la prevenzione dei conflitti. L’istituto pubblica ogni anno un “Indice di Fragilità Statale”, nel quale gli Stati sono classificati in una lista che vede in testa i paesi più disastrati. Nessuna sorpresa che la lista sia dominata ormai da anni da stati africani come la Repubblica Centrafricana, Sud Sudan e Somalia; anche il Medio Oriente è ben rappresentato con la Siria, lo Yemen e l’Irak, mentre spicca in Asia l’instabilità di Afghanistan e Pakistan per la forte presenza dei gruppi Talebani.
I rapporti sempre più tesi nelle relazioni internazionali sono un un altro problema per l’ordine mondiale. In uno scenario ad elevato tenore conflittuale, gesti e reazioni muscolari o armate hanno spesso sostituito la prudenza dell’azione diplomatica. La recente escalation della crisi fra Iran ed Arabia Saudita per l’esecuzione dell’Imam sciita; i rapporti tesi tra Russia e Turchia per l’abbattimento di un jet russo; le tensioni in estremo Oriente per questioni marginali di confini che si sovrappongono alla “guerra fredda regionale” con la Corea del Nord; questi sono solo alcuni esempi di esasperazione di posizioni differenti su questioni le più diverse.
Anche i rapporti tra potenze globali sono tesi. Il dialogo tra Usa e Russia risente del conflitto ucraino del 2014. Per punire Putin per l’invasione della Crimea, Obama ha cercato di isolare la Russia a livello internazionale, sostenendo le sanzioni economico-finanziarie europee ai danni di aziende e banche russe. Ma Putin non ha cambiato idea sull’Ucraina e le tensioni permangono elevate; la Russia ha ormai incorporato la Crimea nei suoi confini e continua a sostenere i ribelli filo-russi nel bacino del Donbass.
Sulla questione siriana i due paesi sono costretti a dialogare e coordinarsi per evitare incidenti sul campo e delineare possibili scenari futuri; faticano comunque a trovare una base comune: le divergenze si accentrano intorno al ruolo di Bashar al Assad per il futuro politico della Siria; i russi lo sostengono nel conflitto contro i ribelli appoggiati dagli americani. La recente tregua, siglata come premessa a colloqui di pace a Ginevra, è accompagnata da accuse reciproche tra governativi e ribelli di violazione del cessate il fuoco. L’avvio dei colloqui di Ginevra sarà un importante banco di prova per l’Onu, come luogo del dialogo internazionale oggi così difficile e frammentato.
I rapporti fra Cina e Stati Uniti sono caratterizzati da relazioni fiorenti sul piano economico e da rapporti politici improntati al sospetto e alla sfiducia reciproca. Gli americani temono l’egemonia militare cinese in Asia. Dal canto suo Xi Jinping vede gli Stati Uniti al centro di una strategia comune con Giappone, Corea del Sud ed altri alleati nel sud est asiatico per accerchiare la Repubblica Popolare e contenerne l’ascesa. La questione del Mar Cinese meridionale, conteso tra Cina, Filippine e Vietnam, è il termometro della tensione internazionale nell’area; gli Stati Uniti si proclamano neutrali e a favore di una soluzione pacifica della disputa, ma di fatto sostengono gli avversari della Cina, con forniture di mezzi navali alla Guardia costiera filippina ed intense relazioni militari con il governo vietnamita.
Cent’anni fa in in Europa infuriava la prima guerra mondiale: una dimostrazione che non bastano stretti rapporti economici per evitare il tracollo. Oggi le Nazioni hanno ampie possibilità di dialogo sia bilaterale che attraverso relazioni ed organismi internazionali; parlarsi continua ad essere l’unica alternativa a gesti muscolari, generalmente sostenuti da sentimenti di affermazione e di rivalsa nazionalista. Insomma, mantenere vivi e funzionanti i canali di dialogo e di cooperazione internazionale è la lezione principale dei tragici conflitti globali del secolo scorso. Una lezione che le Nazioni non devono dimenticare.