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Primavera araba, dopo 5 anni è già un fallimento | Addio alle speranze di democrazia e diritti

Sono passati cinque anni dall’inizio della primavera araba, l’onda di agitazioni popolari che ha sconvolto il Medio Oriente dalla fine del 2010. Iniziata con il drammatico suicidio del tunisino Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco in seguito a maltrattamenti subiti da parte della polizia, la primavera portò nel giro di alcuni mesi al crollo di regimi in apparenza solidi come la roccia in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen. Fu salutata all’epoca dai media occidentali come una possibilità di evoluzione democratica in tutto il Medio Oriente, una speranza cui fu associato appunto il termine evocativo di “primavera”.

Sono passati cinque anni ed il bilancio è largamente negativo. Il mondo arabo è oggi una miscela in fiamme di guerre civili, stati falliti e rinnovato e feroce autoritarismo. Poco è rimasto della speranza di una nuova stagione di democrazia e diritti civili.

Tutto è iniziato in Tunisia. Nel gennaio 2011 il presidente Ben Ali è fuggito all’estero e si indissero nuove elezioni nazionali. Oggi la Tunisia è un paese pluralista e democratico ma flagellato dalla povertà e da gravi diseguaglianze; la violenza dei movimenti estremisti salafiti caratterizza la vita nelle università; migliaia di giovani tunisini sono partiti per la Siria per unirsi all’Isis; drammatici attentati a Tunisi e Susa hanno fatto decine di morti tra i turisti occidentali. Alcuni esponenti del regime di Ben Ali si sono riciclati nella nuova politica tunisina: propongono un ritorno ad uno stato forte ed autoritario, utilizzando lo spauracchio della minaccia terroristica. Il paese vive peraltro in stato d’emergenza dal novembre del 2015, per motivi di sicurezza.

In Egitto Hosni Mubarak, al potere da decenni, si è dimesso nel febbraio 2011. Le elezioni  hanno quindi premiato Mohamed Mursi e la fratellanza musulmana; Mursi si è però dimostrato incapace di gestire in modo equilibrato la società egiziana, l’economia e le relazioni internazionali. Nell’estate del 2013 il colpo di stato militare guidato dal generale Al Sissi, forte del consenso della classe imprenditoriale egiziana e della minoranza cristiano-copta, mette fine ad un periodo di forti contrasti e scontri tra islamisti e opposizioni. Oggi Al Sissi è saldamente alla guida di un regime ancora più autocratico di quello di Mubarak, basato su uno stato d’emergenza permanente che giustifica la durissima repressione della Fratellanza Musulmana e di qualsiasi altra forma di opposizione politica. L’omicidio del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni ha portato i suoi eccessi repressivi all’attenzione della comunità internazionale.

Anche lo Yemen, paese da sempre poverissimo e fragile, è stato colpito dall’onda delle proteste del 2011. Qui la rivolta ha spinto alla fuga il presidente Saleh nel 2012. Nel 2014 è scoppiata una guerra civile fra il governo centrale e i ribelli sciiti houthi, di fatto un nuovo teatro bellico per la storica rivalità tra Iran ed Arabia Saudita. La guerra è oggi in corso, lo stato centrale si è disgregato ed il paese è sull’orlo di una catastrofe umanitaria, con centinaia di migliaia di profughi. Continuano i bombardamenti sauditi dal cielo e fiorisce il terrorismo di Al Qaeda, che da qui minaccia tutta la penisola arabica.

In Libia l’esito della primavera araba è stata la frammentazione del paese. La ribellione del 2011 e il successivo intervento militare internazionale hanno portato alla fine del pluridecennale regime di Gheddafi; ma la comunità internazionale non si era curata di comprendere il paese e tantomeno aveva pianificato con una qualche attenzione il suo futuro istituzionale. Risultato: dopo anni di lotta tra il governo islamico di Tripoli ed il governo di Tobruk riconosciuto dall’Occidente, oggi l’Isis è riuscito ad incunearsi tra le fazioni assicurandosi il controllo nell’area della Sirte. Si è quindi risvegliata l’attenzione internazionale sulla Libia, con tentativi (ancora in alto mare) di costruire un fronte interno comune contro lo stato Islamico.

In Siria la primavera araba è sfociata in una guerra lunga e sanguinosa con 450.000 morti e 8 milioni di profughi. L’intervento armato russo ha rianimato negli ultimi mesi il regime di Assad, dopo anni di arroccamento nell’area di Damasco. I nuovi sanguinosi attacchi del regime hanno riconquistato terreno ceduto alle opposizioni islamiche ’moderate ’ sostenute dall’Occidente. I curdi sono sostenuti dai bombardamenti occidentali e stanno prendendo terreno all’Isis, ma subiscono i bombardamenti turchi. E da sabato 28 febbraio scatta un’incerta tregua umanitaria concordata tra Obama e Putin.

Il Bahrein è stata l’unica delle “petromonarchie” del Golfo Persico ad affrontare sommosse popolari nel 2011. Si tratta di un piccolo paese a maggioranza sciita, governato da una famiglia reale sunnita fortemente legata al clan dei Saud. Il re Hamad ben Issa el-Khalifa è riuscito a mantenere intatto il proprio potere a prezzo di una dura repressione militare agevolata dall’appoggio armato saudita, che ha turbato la pace sociale nel paese ed esasperato le divisioni confessionali.

Gli altri paesi del golfo hanno saputo controllare possibili contagi interni della primavera araba ma continuano ad essere regimi assoluti che comprano il consenso sociale con sussidi a pioggia derivanti dalla rendita petrolifera. Il principale tra questi, l’Arabia Saudita, è stato interessato da una delicata successione al trono ed ha favorito l’escalation delle tensioni con il tradizionale rivale iraniano, dopo la revoca dell’embargo internazionale contro l’Iran.

L’Iraq è di fatto uno stato fallito dopo la distruzione del regime di Saddam Hussein. Tre zone autonome sono controllate da sciiti, curdi e sunniti cui sono subentrati i terroristi dell’Isis. La primavera non ha attecchito in un paese già scosso da conflitti interni.

In questo clima di grande incertezza, di infiltrazione diffusa dell’estremismo islamico, di guerre locali e guerre globali, di sostanziale fallimento delle promesse di democrazia della Primavera, sono poche le isole di relativa stabilità in Medio Oriente. Su tutte gli Emirati Arabi Uniti, che rimangono una meta turistica, un hub finanziario e commerciale con centinaia di migliaia di espatriati asiatici e occidentali.

Giuseppe Citrolo

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Giuseppe Citrolo
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