Il petrolio ha perso il 70% del suo valore in 18 mesi, dai 100 $ al barile di metà 2014 ai 30 di oggi. E’ il classico caso da testo di economia: disponibilità abbondanti di greggio e domanda debole hanno spinto i prezzi verso il basso. La domanda di petrolio in Occidente si è ridotta nel 2014: Europa e Giappone stentano a riprendersi dalla crisi degli ultimi anni, mentre la domanda americana è ristagnata a causa della riduzione di alcune produzioni petrolchimiche e l’utilizzo di carburanti di origine vegetale per limitare le emissioni inquinanti. Fondamentale è il rallentamento della crescita cinese, vero motore dell’economia mondiale che ha spinto al rialzo i consumi energetici da almeno un decennio. I cinesi hanno registrato nel 2015 un “misero” aumento del Pil del 6.8%, il più basso degli ultimi 25 anni.
Mentre i fondamentali della domanda petrolifera si sono deteriorati negli ultimi 2 anni, erosi anche dall’avanzata di fonti energetiche alternative come il gas e le rinnovabili, il prezzo elevato del petrolio ha stimolato investimenti imponenti per sfruttare anche risorse tradizionalmente “costose”: gli Stati Uniti hanno aumentato la loro produzione del 50%, sino a 11 milioni di barili al giorno tramite il “fracking” degli scisti. E significativi investimenti hanno sostenuto le produzioni da sabbie bituminose in Canada e l’estrazione petrolifera offshore.
In sintesi, è successo quanto doveva succedere in presenza di offerta in eccesso. Ma non si tratta di dinamiche inevitabili: l’Opec, il cartello di paesi produttori che controlla il 40% della produzione mondiale, ha deciso a novembre di mantenere i livelli di produzione. Un atto da guerra dei prezzi, per creare ulteriori difficoltà proprio alle produzioni più costose. E gli effetti dei prezzi bassi negli ultimi mesi sono esemplificati in alcune statistiche impressionanti: circa 65.000 posti di lavoro sono stati persi nei bacini offshore del nord Europa dall’anno scorso e altri tagli di personale sono annunciati; 68 progetti di produzione petrolifera per un investimento complessivo di 380 miliardi di dollari sono stati cancellati nel 2015 secondo Wood Mackenzie, multinazionale della consulenza energetica; 37 produttori nord americani hanno già dichiarato bancarotta, secondo lo studio legale texano Haynes and Boone, e decine di altri li potrebbero seguire se il ribasso dei prezzi si protrarrà a lungo; un colpo, forse definitivo, alle ambizioni americane di indipendenza energetica.
Ma sarebbe riduttivo affrontare il problema del prezzo del greggio come una pura questione di bilancio tra disponibilità e domanda e di tattiche competitive internazionali. Il petrolio è una materia prima scambiata in quantità enormi; pur ai bassi prezzi correnti, il controvalore delle vendite annue fisiche supera i 1.000 miliardi di $. E le speculazioni finanziarie legate ai prezzi futuri del petrolio muovono controvalori decine di volte più grandi. Le crisi dei prezzi petroliferi hanno avuto in passato significative conseguenze immediate e di medio periodo in termini economici e geopolitici, sia per i paesi produttori che per gli acquirenti.
Gli shock petroliferi degli anni ’70 hanno rimodellato i rapporti di forza tra le potenze occidentali ed i produttori del Medio Oriente. Nel 1973 l’embargo dell’Opec contro gli Stati Uniti per il loro intervento pro – Israele nella guerra dello Yom Kippur fece aumentare i prezzi del 400%, sino a 12 $ al barile, causando l’austerità energetica nel mondo occidentale. Il Medio Oriente prese coscienza del proprio ruolo strategico nel panorama economico mondiale. Nel 1979 la rivoluzione iraniana e la successiva guerra con l’Irak causò un’altra impennata dei prezzi sino a 43 $, cui seguì un periodo di recessione in America ed altri paesi occidentali. Al contrario, il consolidamento di grandi disponibilità finanziarie nella penisola arabica consentì uno sviluppo economico impetuoso nell’area; negli anni 70 i sauditi toccarono punte di crescita annuale di oltre il 25%!
Negli anni ’80 si assistette ad una rivoluzione degli equilibri geopolitici nel settore energetico. La nazionalizzazione delle compagnie operanti in Medio Oriente, come l’araba Saudi Aramco nel 1980, consentì ai paesi dell’area il pieno controllo delle proprie risorse. La corsa delle società petrolifere occidentali ad approvvigionamenti da aree alternative portò all’affermazione di altri paesi esportatori come il Messico, la Nigeria ed il Venezuela, ed allo sfruttamento massiccio dei giacimenti del Mare del Nord e dell’Alaska; diminuì così l’influenza dell’Opec sui mercati energetici internazionali. Ed intanto l’Unione Sovietica si affermava come il più grande produttore mondiale.
Il prezzo del petrolio entrò quindi in un periodo di perdurante debolezza dalla metà degli anni ’80, destinato a durare sino alla fine del ventesimo secolo; fu una delle cause del crollo dell’impero sovietico; e l’invasione del Kuwait nel 1990 derivò in parte dall’ambizione di Saddam Hussein di aumentare le proprie risorse in tempi di crisi economica. In Algeria la crisi delle entrate per i bassi prezzi del petrolio portò nel 1991 alla vittoria elettorale del Fronte Islamico della Salvezza, poi al colpo di stato militare e ad anni di violenta guerra civile, che fece duecentomila morti tra la popolazione del paese.
E’ difficile dire se i bassi prezzi petroliferi degli anni ‘80 e ’90 abbiano lasciato dei chiari vincitori o sconfitti, e se siano stati in fin dei conti un bene o un male. E’ chiaro che le democrazie liberali occidentali hanno beneficiato della fine del blocco sovietico, ma non si può affermare che prezzi bassi abbiano portato allora pace e stabilità in Medio Oriente e nel mondo musulmano. Che è quello di cui la regione ed il mondo intero hanno bisogno adesso.