Svelava l’intreccio tra mafia e affari quando a Catania queste cose venivano soltanto sussurrate. E combatteva la criminalità organizzata con la forza delle sue inchieste. È l’eredità lasciata da Pippo Fava, giornalista ucciso il 5 gennaio del 1984 davanti la sede del Teatro Stabile di Catania mentre stava andando a prendere la nipotina a una recita. Ad assassinarlo Cosa nostra infastidita dalle sue inchieste su mafia, politica e imprenditoria.
A 32 anni dalla morte l’appuntamento è davanti alla lapide che lo ricorda. Sul luogo del delitto, in quella che è diventata via Giuseppe Fava. Con un’assenza ‘pesante’: quella della figlia Elena, presidente della Fondazione dedicata al giornalista, morta lo scorso dicembre. “E’ un dolore in più, un vuoto in più – osserva suo fratello Claudio, componente la commissione parlamentare Antimafia – sarà più difficile per tutti. Catania è un città generosa, ma che deve mettere a nudo i tanti anni di silenzio. È l’unica città dove se devi ricostruire una mappa della mafia i nomi sono rimasti sempre quelli: Santapaola, Ercolano, Mazzei… Qui c’è un passato che è ancora presente”.
Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ricorda una frase che Fava ripeteva spesso: ‘a che serve essere vivi, se non si ha il coraggio di lottare?'”. E rileva che “passione, coraggio e rigore non gli mancarono mai: la mafia non potendolo piegare lo uccise”. “Gli uomini così – aggiunge Grasso – sono preziosi e abbiamo il dovere di ricordarli e raccontare le loro storie”.
Per la presidente della Camera, Laura Boldrini, “ricordare Pippo Fava significa anche ribadire quanto è importante che ognuno faccia la propria parte”, come fece il giornalista “con le sue coraggiose inchieste sulla mafia”.
Diverse le cerimonie davanti la lapide per Giuseppe Fava alle quali hanno partecipato rappresentanti del Comune, della magistratura, delle forze d’ordine, dei sindacati e anche di Assostampa e Unci.