Il Psuv, partito socialista unito del Venezuela, è stato sconfitto alle elezioni parlamentari di domenica 6 dicembre. Il presidente Maduro, leader del partito, ha riconosciuto la vittoria del centrodestra del Mud, Tavola Rotonda dell’Unità democratica, una coalizione d’ispirazione liberale. Sono state delle elezioni molto sentite nel paese, arrivate al culmine di un periodo di tensione per la grave crisi economica che imperversa ormai da anni. L’affluenza alle urne è stata elevata, circa il 75%, e gli elettori hanno voluto punire il Psuv per la mancanza di beni di prima necessità, la disoccupazione in aumento e la fortissima inflazione che sta erodendo inesorabilmente il potere di acquisto.
Lo sconfitto Maduro ha detto che ha comunque trionfato la democrazia venezuelana, aggiungendo però che le forze di opposizione ”hanno vinto la loro battaglia controrivoluzionaria con il supporto degli Usa, che hanno una lunga storia di interferenza nei processi democratici dell’America Latina”. Il riconoscimento del risultato elettorale è un passaggio importante per un paese sotto osservazione per il suo processo elettorale poco trasparente. Luis Almagro, segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani, aveva espresso preoccupazione per il modo disinvolto con cui il Psuv ha utilizzato i media nazionali per la campagna elettorale, ha denigrato pubblicamente i leader dell’opposizione e progettato schede elettorali poco chiare.
I leaders del centrodestra hanno commentato la vittoria con parole dure, in un preludio di quello che sarà un periodo di intensa lotta politica in un paese polarizzato e tormentato dalla crisi. Jesus Torrealba, leader del Mud, ha detto che ”le famiglie venezuelane sono stanche di vivere le conseguenze dei fallimenti di questo governo. Ci vuole il cambiamento, che comincia oggi!”.
La vittoria del centrodestra segna una battuta d’arresto per la ”rivoluzione socialista” iniziata nel 1999 dal carismatico Hugo Chavez, che sino alla morte, nel 2013, è riuscito ad incarnare le aspirazioni politiche delle masse povere ed escluse del suo paese. Alla base del “chavismo” venezuelano c’è la convinzione che lo stato debba assumere un ruolo guida nell’economia nazionale, interpretando il desiderio di rivincita del popolo nei confronti degli oligarchi liberisti, dipinti come eredi dell’oppressione coloniale ed emissari dell’imperialismo americano. La ideologia anti occidentale è stata a lungo condivisa da altri governi dell’area latinoamericana, dal castrismo cubano alla Bolivia di Morales, all’Argentina peronista dei Kirchner ed al socialismo brasiliano di Lula e della Roussef.
Questa ideologia antioccidentale ed antiliberista, pur mostrandosi molto efficace nel conquistare il cuore del popolo venezuelano, si è tradotta sul piano economico in alcune scelte che, alla lunga, hanno messo in ginocchio l’economia del paese. Il Venezuela è il paese con le maggiore risorse petrolifere al mondo ed il petrolio è il suo motore economico. Ma oggi produce poco più di 2 milioni di barili al giorno, un quinto dell’Arabia Saudita; erano 3 milioni e mezzo nel 1998 e quando Chavez ha preso il potere ha nazionalizzato la compagnia di stato Pdvsa; in seguito circa 20.000 impiegati sono stati licenziati per motivi politici, impoverendo così contenuto tecnico e capacità gestionale dell’azienda. Infine, investimenti pubblici insufficienti ed elevate royalties per società petrolifere estere hanno causato un declino inesorabile della produzione.
Peraltro, i proventi del petrolio sostengono la politica economica di Chavez nel corso degli anni: lo sviluppo di una fitta rete di oltre 100.000 aziende cooperative, finanziate del micro credito bancario; la creazione di oltre 3.000 ‘banche comunali’, che finanziano i consigli locali in progetti sociali a sostegno delle aree cittadine; la nazionalizzazione di interi settori industriali come la produzione del cemento, le compagnie telefoniche e la produzione elettrica; la ‘democratizzazione’ delle aziende tramite la cogestione delle attività con i consigli dei lavoratori; politiche generali di contrasto alla povertà, che dimezzano nel corso degli anni al 10% la fascia sociale di povertà estrema; politiche di controllo dei prezzi per i beni di prima necessità.
La politica economica chavista ha senza dubbio aumentato il benessere del popolo venezuelano, ma ha anche appesantito eccessivamente i conti pubblici e minato l’efficienza del sistema produttivo; cattiva gestione, investimenti sbagliati, politiche del lavoro inflessibili causano un declino di competitività del sistema paese: il World Economic Forum stima la competitività del Venezuela al 138esimo posto su 145. I nodi vengono al pettine con gli anni della crisi finanziaria: i ridotti proventi del petrolio ed il sistema produttivo inefficiente causano una significativa riduzione della ricchezza del paese e la perdita di posti di lavoro, con proteste diffuse tra i lavoratori già nel 2008. Ma Chavez non ferma le politiche di spesa e con la campagna presidenziale del 2012 di fatto triplica il debito pubblico del paese ed avvia una spirale inflazionistica che porta la svalutazione del Bolivar al 100% annuo nel 2015. L’approvvigionamento dei beni, anche quelli essenziali come le medicine, è diventato in questi ultimi anni un grave problema. L’economia è oggi in caduta libera: il Pil perderà il 10% del suo valore nel 2015.
Insomma, il nuovo Parlamento che si insedierà a gennaio eredita una situazione economica vicina al collasso. Che succederà dopo? E’ prevedibile un forte contrasto istituzionale con Maduro, in carica con il suo Governo sino al 2019. E La Corte Suprema, massima autorità giudiziaria, è ancora saldamente in mano chavista. Una coabitazione difficile: un deciso cambio di rotta e la rapida ripresa per il Venezuela non sembrano al momento una prospettiva probabile.