L’Isis ha scatenato negli ultimi due mesi una guerra del terrore senza confini contro i suoi nemici in terra di Siria: il 10 ottobre ad Ankara sono morte oltre 100 persone durante una manifestazione pacifista filo curda; il 4 novembre una bomba ha distrutto un aereo di linea russo in volo sui cieli del Sinai uccidendo 214 persone, il 12 novembre due attentati suicidi in un quartiere sciita di Beirut hanno fatto oltre 40 vittime. E venerdì 13 novembre i terroristi dell’Isis hanno colpito Parigi.
Nel 2015 in Francia si era già verificato l’assalto alla sede di Charlie Hebdo ed al supermercato ebraico in gennaio e il tentativo di strage sul treno Amsterdam – Parigi in agosto. La Francia, insomma, sembra particolarmente presa di mira dal terrorismo islamista di matrice interna. Alcuni dati aiutano ad interpretare l’intensità della minaccia jihadista in questo paese.
La Francia è il paese europeo a più elevata presenza islamica: su 60 milioni di abitanti circa il 10% è di fede musulmana, discendente soprattutto dalle grandi ondate di immigrazione economica dalle ex-colonie del Maghreb, dall’Africa Occidentale e dalla Turchia iniziate negli anni cinquanta e sessanta. La prima generazione di immigrati, per lo più uomini abili al lavoro, ha avuto poi la possibilità di richiamare le famiglie dai paesi d’origine. Molti hanno ottenuto la cittadinanza francese, ma sono rimasti legati alle loro origini, ai legami familiari e alle loro tradizioni religiose. I cittadini musulmani di oggi, la seconda generazione, sono spesso male integrati e concentrati nelle banlieues, quartieri periferici delle grandi città, caratterizzati da un alto tasso di delinquenza, disoccupazione e disagio sociale.
Il profilo degli attentatori di Charlie Hebdo e di quelli finora individuati del 13 novembre è infatti quello di giovani francesi di origine nordafricana o saheliana, con piccoli precedenti penali – spesso per droga – già noti alle autorità per essere entrati in percorsi di radicalizzazione religiosa. E un altro sintomo dei problemi di integrazione della minoranza musulmana si ritrova nell’analisi della popolazione carceraria francese: nelle carceri francesi vi sono circa 68.000 detenuti e di questi il 70% è di fede musulmana. Sono il 15% tra i detenuti nel Regno Unito ed il 35% in Italia. In carcere circa 1.000 musulmani radicali sono separati dagli altri, una misura per evitare la diffusione di sentimenti jihadisti tra la popolazione carceraria. Ma, in mancanza di specifici programmi di de-radicalizzazione, la loro fede radicale rischia di rafforzarsi.
Inoltre è noto che circa un migliaio di giovani francesi si sono recati in Siria ed Iraq per combattere a fianco dell’Isis come ”foreign fighters”. Una commissione parlamentare francese ha redatto un rapporto nel giugno di quest’anno sul contingente francese in Siria, stimando circa 120 morti per i combattimenti tra Siria ed Irak. Il rapporto inoltre afferma che oltre 200 combattenti francesi sono ritornati in Francia dall’inizio dei raid aerei occidentali nel 2015, mentre sono stimati da 300 a 600 i giovani in partenza per la Siria in questi ultimi mesi. Il rapporto mette in evidenza una situazione complessa per ciò che attiene a matrice sociale e motivazione dei ‘combattenti’; alcuni sono d’origine nord africana, altri musulmani convertiti, alcuni con scarso livello d’istruzione ed altri brillantissimi studenti; tra le motivazioni c’è una miscela di fede politica, preoccupazioni umanitarie, obblighi religiosi, solidarietà con i propri amici, desiderio d’avventura oppure semplice voglia di combattere.
Il vicino Belgio è la base logistica dell’attentato parigino: terroristi ed armi dell’attentato parigino venivano da lì. In particolare il quartiere di Molenbeek a Bruxelles, abitato da una grande comunità marocchina povera e fortemente degradato dopo la crisi industriale che ha trasformato la capitale belga in un centro del terziario, sembra essere diventato una centrale del terrorismo. Gli investigatori hanno identificato l’ispiratore ed organizzatore degli attacchi del 13 novembre in un giovane belga di origini nordafricane di 28 anni, proveniente proprio da Molenbeek. Si trova da qualche mese in Siria a combattere con l’Isis. Il Belgio è anche il paese europeo che in proporzione alla popolazione conta più combattenti nelle file siriane dell’ISIS.
La sfida con il terrorismo di matrice islamica dura da molti anni e potrebbe durare ancora a lungo. Attualmente nel mondo musulmano ci sono cinque stati falliti: Afghanistan, Siria, Libia, Iraq e Yemen. Sono tutti terreno di coltura e potenziali basi per gruppi terroristici; e non solo l’Isis, i cui capi sono ex militari sunniti iracheni del disciolto esercito di Saddam Hussein, ma anche i Talebani ed i seguaci della rete di Al Qaida nella penisola arabica.
I movimenti populisti europei avranno ora la tentazione di demonizzare l’Islam e i circa 30 milioni di musulmani europei; punteranno il dito sui rischi dell’ondata migratoria di milioni di disperati in fuga dalla Siria o dal Sahel. L’Europa deve resistere a queste facili generalizzazioni ed affrontare i problemi per quello che sono: la guerra in Siria, che ha bisogno di una strategia internazionale contro il nemico comune dell’Isis; il rischio terrorismo in Europa, che si affronta moltiplicando gli sforzi della rete d’intelligence europea e globale; l’ondata migratoria epocale proveniente dalla Siria ed altri paesi, che ha bisogno di una risposta comune in Europa fatta di accoglienza per chi ne ha diritto e di rimpatrio per chi non lo ha.
Ha detto il presidente Hollande: “E’ una guerra, ma non è uno scontro di civiltà”. E’ vero: l’Isis usa con gli occidentali i toni anti-cristiani: siamo infedeli e quindi andiamo eliminati. Ma sono infedeli anche gli Sciiti, o i musulmani moderati, o i poveri Siriani che fuggono dalle zone controllate dall’Isis per rifugiarsi nelle tendopoli. È bene ricordare, anche se non se ne parla spesso, che il 90% delle vittime del terrorismo islamista sono musulmani. Anche le vite libanesi, nigeriane, irachene e siriane hanno un valore.