Dieci morti e 80 feriti. E’ il bilancio di sangue di venerdì 9 ottobre, una giornata di scontri fra esercito israeliano e palestinesi al confine fra la striscia di Gaza e Israele. La nuova ondata di violenza dura ormai da una settimana; è chiamata “l’intifada dei coltelli”, per i numerosi episodi di accoltellamenti di cittadini israeliani a Gerusalemme e in altre città. Molti assalitori, palestinesi ed arabi israeliani, sono poi caduti sotto i colpi di polizia ed esercito.
La tensione è iniziata a salire in settembre, quando Uri Ariel ed altri politici israeliani di destra hanno provocatoriamente percorso la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, un luogo sacro per l’Islam sunnita e ‘Monte del Tempio’ per gli ebrei. Nel mese di luglio Ariel, ministro dell’edilizia ed esponente del partito sionista estremista La Casa Ebraica, aveva auspicato la ricostruzione del Tempio ove oggi sorge la Moschea di Al-Aqsa.
Dopo il gesto provocatorio, scontri si sono susseguiti nella città vecchia di Gerusalemme e sulla Spianata, con decine di feriti fra i manifestanti e le fila delle forze di sicurezza israeliane. E poi i coltelli: l’1 ottobre Eitam e Naama Hemkin, coloni israeliani, sono uccisi nei pressi di Nablus da militanti palestinesi. Il giorno dopo altre 2 vittime nella città vecchia di Gerusalemme, due ebrei ortodossi accoltellati a morte da un giovane di Ramallah. E quindi l’escalation di violenza, con altri assalti e la reazione armata da parte delle forze di sicurezza israeliane ed anche di civili.
In questo momento di crisi nazionale in Israele, il sostegno al Governo e alle forze di polizia è bi-partisan. “Contro la codardia del terrorismo arabo, un onda di coraggio ebraico si innalza per sconfiggerlo”, proclama il ministro per l’educazione Nafteli Bennett. “Ovunque ci sia un terrorista, i cittadini si levano a difendere i loro fratelli ed eliminare il nemico”.
Anche i leader dell’opposizione di centro-sinistra si sono stretti attorno alle vittime e alle forze dell’ordine; Isaac Herzog, del principale partito di opposizione Campo Sionista, non ha comunque risparmiato critiche sarcastiche a Netanyahu: “Un primo ministro debole, buon attore di teatro ma pessimo leader; ha perso il controllo di tutto tranne che della sua pagina Facebook”, accusandolo di non aver saputo disinnescare in tempo la palpabile tensione nella capitale.
Da parte sua, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas ha incitato ad una pacifica protesta popolare per la difesa della moschea di Al-Aqsa e ha intimato al governo israeliano di stare “alla larga dai luoghi sacri all’Islam ed ai cristiani”. “La bandiera palestinese sventolerà sulla moschea di al-Aqsa e la Chiesa del santo Sepolcro, quando lo Stato Palestinese sarà infine costituito” ha detto, chiedendo all’Onu di aprire un’inchiesta sui crimini d’Israele, l’uccisione a sangue freddo di civili innocenti ed altre violazioni del diritto internazionale.
La violenza nella regione è riesplosa dopo un anno dall’ultimo episodio, l’ingresso dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza nel 2014 in risposta ai missili di Hamas su Israele. Il conflitto israeliano-palestinese è il più lungo tra quelli che insanguinano il nostro pianeta (comincia all’inizio del ‘900), ma ha attraversato una fase di relativa calma dopo la fine della seconda intifada nel 2005, passando poi in secondo piano nel periodo della Primavera araba e delle crisi che ne sono seguite, prime fra tutte la guerra civile siriana e l’avanzata di Isis in Iraq e Siria.
In teoria una soluzione a questo eterno conflitto c’è: si tratta della formula “due popoli e due stati”, cioè la nascita accanto ad Israele di uno stato palestinese che comprenda i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza; la parte est di Gerusalemme ne diverrebbe la capitale.
Tutti, da Washington a Mosca, dall’Unione Europea agli stessi protagonisti locali, Netanyahu e Mahmud Abbas, dicono di volere questa soluzione. Ma numerosi sono gli ostacoli ed importanti le differenze fra le due parti.
Riepiloghiamo: gli Israeliani hanno acquisito il controllo dei territori palestinesi dopo la guerra del 1967 contro gli stati arabi confinanti; vi hanno costruito oltre 100 insediamenti in cui ormai abitano oltre seicentomila coloni israeliani, che non vogliono tornare indietro. Inoltre, gran parte dell‘opinione pubblica e della classe dirigente d’Israele non vuole rinunciare a parte di Gerusalemme, città santa dell’Ebraismo.
I palestinesi sono divisi ormai da nove anni fra il movimento islamista Hamas, che controlla la striscia di Gaza e propugna la conquista islamica d’Israele e l’Anp di Mahmud Abbas (Abu Mazen), che controlla alcune parti della Cisgiordania ed è favorevole a negoziati con gli israeliani. I palestinesi chiedono il ritorno di milioni di rifugiati che vivono in Libano e Giordania; i loro padri erano fuggiti dalla Palestina durante la guerra del 1948-49 con cui si affermò lo stato ebraico d’Israele. Ma i luoghi d’origine sono oggi inglobati nei confini israeliani.
Gli israeliani rifiutano questa ipotesi, sostenendo che l’afflusso di milioni di arabi modificherebbe in maniera radicale la natura ebraica di Israele. Peraltro, già oggi il 20% della popolazione israeliana, circa un milone e mezzo di persone, è arabo-palestinese. Il premier israeliano Netanyahu guida un governo di coalizione di destra che oltre il Likud, comprende partiti ortodossi, come Shas, United Torah Judaism e Casa Ebraica, partito di riferimento dei coloni. Questo governo è non solo poco incline a cercare il compromesso con i palestinesi, ma promuove l’espansione degli insediamenti ebraici, esacerbando le tensioni.
Fra i palestinesi, la linea di moderazione di Abu Mazen è sempre meno popolare: a vent‘anni dagli accordi di Oslo – che hanno visto il riconoscimento di Anp da parte del leader israeliano Rabin – la Cisgiordania è ancora in gran parte occupata dai militari dello stato ebraico.
Intanto, cresce nei territori una nuova generazione di giovani radicalizzati che si ispirano al ‘Jihadismo 2.0’ dell’Isis e che neanche Hamas riesce a controllare. Non a caso, Internet e i social networks sono stati i mezzi principali per pianificare e condividere la violenza dell’Intifada dei Coltelli.