La percezione di uno Stato sotto attacco, l’ombra, dietro alle stragi del ’92 e del ’93, di organizzazioni criminali diverse da Cosa nostra e la sensazione di un piano finalizzato a sovvertire l’ordine pubblico: ripercorre timori e intuizioni degli anni caldi degli eccidi di mafia Gianni De Gennaro, osservatore “privilegiato”, prima investigatore che collaborò con Giovanni Falcone, poi ai vertici della Dia, oggi teste al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
E proprio l’analisi che la Direzione Investigativa Antimafia inviò al ministro dell’Interno Nicola Mancino ad agosto del 1993 è il cuore della deposizione dell’ex capo della Polizia.
Un documento importante, depositato agli atti del dibattimento, in corso davanti alla corte d’assise di Palermo, che vede alla sbarra ex politici come Nicola Mancino e Marcello Dell’Utri, boss di rango come Totò Riina, Luca Bagarella, pentiti, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo e ex vertici dei carabinieri del Ros: ciascuno, con un proprio ruolo, coinvolto, secondo l’accusa, nel “dialogo” che pezzi dello Stato avrebbero avviato con la mafia negli anni delle stragi.
Esperto di cose di mafia, per anni a fianco di Falcone, De Gennaro analizzò a caldo l’escalation di violenza cominciata con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima. “Un fatto gravissimo – lo capimmo subito – ha detto deponendo De Gennaro – Ma solo dopo la strage di Capaci ripensammo anche a quel delitto come all’inizio di una strategia, una sorta di escalation dell’azione violenta di Cosa nostra”. Poi arrivò l’uccisione del giudice Borsellino e degli agenti della scorta.
Un gesto “anomalo”, sottolinea più volte l’ex capo della polizia, ricordando anche quanto scritto nella relazione della Dia inviata a Mancino dopo le bombe del ’93. “Capimmo che per la mafia era una sorta di boomerang. – spiega – Infatti fece da acceleratore all’adozione di misure repressive che, fino ad allora, stentavano ad essere approvate”.
“L’analisi che venne fatta – dice ai giudici – segnalò la preoccupazione di un futuro possibile attacco alle istituzioni e si valutò l’ipotesi che, proprio in ragione di quella anomalia notata, ci potesse essere la complicità di altre organizzazioni criminali”. “Che si legge nella relazione – perseguivano obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa nostra”.
Il pm insiste più volte sul termine “trattativa”, chiedendo al teste se avessero captato l’intenzione di Cosa nostra di intavolare una sorta di dialogo con la mafia. De Gennaro risponde: “gli attentati a Roma e Milano del 1993 furono vissuti come un attacco allo Stato, ma non si parlò di un ricatto da parte dei clan. Si era concentrati sul pericolo di un tentativo di destabilizzazione dell’ordine pubblico”. Resta l’analisi, che col senno del poi pare profetica, fatta dalla Dia che, a meno di due anni, dalle stragi del ’92 e a ridosso dalle bombe di Roma e Milano, tracciò scenari criminali all’epoca inimmaginabili. Con Cosa nostra al centro di un piano eversivo che avrebbe coinvolto più organizzazioni criminali interessate a sovvertire l’ordine pubblico nel Paese.