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Siria, quattro anni di orrori nella guerra civile | Scenario complicato ma arrivano segnali positivi

La Guerra civile in Siria dura ormai da 4 anni: oltre 200 mila i morti e 130 mila i catturati o scomparsi;  sono 8 milioni i siriani – il 40% della popolazione – che hanno abbandonato le proprie case: 4 milioni sono rifugiati all’estero, perlopiù in campi profughi in Libano, Turchia e Giordania. Molti tra quelli che sono rimasti, circa 12 milioni, vivono giorno per giorno gravi problemi di reperibilità di cibo ed acqua. Le notizie recenti confermano tutte che il conflitto è destinato a durare a lungo, così come le sofferenze delle popolazioni coinvolte.

Le ultime arrivano da Kos, un’isola greca nell’Egeo, dove sono ormai ammassati migliaia di profughi, in maggioranza siriani giunti dalla Turchia in un viaggio della speranza verso nord. I servizi televisivi ci mostrano una situazione al collasso: manca acqua, cibo e le condizioni igieniche sono preoccupanti. Ai primi di agosto l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani ha denunciato l’ennesimo orrore perpetrato dall’Isis: dopo aver conquistato la cittadina di Al Quartayn, a sud est di Homs, i miliziani del califfato avrebbero rapito 230 civili, uomini, donne e bambini, tra cui alcune decine di cristiani. Alla fine di luglio, dopo l’attacco suicida di un membro dell’Isis nella cittadina turca di Suruc, costato la vita a 32 persone, la Turchia aveva rotto gli indugi e bombardato le posizioni del califfato in territorio siriano.

Il conflitto siriano è iniziato nel gennaio 2011 con proteste pacifiche di massa contro il regime degli Assad, sospinto dal clima rivoluzionario della primavera araba in Egitto e Tunisia; è presto degenerato in rivolta armata dopo la brutale repressione dell’esercito governativo, che non ha esitato ad usare bombardamenti a tappeto ed armi chimiche contro i civili. Elementi locali hanno contribuito all’escalation del conflitto: la dura siccità del 2011 ha fomentato il malcontento generalizzato nel paese ed ha amplificato le preesistenti tensioni settarie tra l’establishment di Assad di fede Alauita ed una popolazione a maggioranza sunnita, soprattutto nelle aree interne del paese.

Dopo quattro anni di guerra, lo scenario si è andato via via complicando, come spesso accade in Medio Oriente, dove i confini nazionali includono spesso gruppi in strisciante conflitto tra loro per motivi religiosi o etnici. Oggi, nella miriade di milizie e gruppi armati in Siria, sono quattro gli schieramenti principali: l’esercito del regime di Bashar al Assad controlla Damasco, l’ovest del paese e l’accesso al Mediterraneo; i ribelli dell’Esercito Libero Siriano, in guerra con il regime di Assad sin dai tempi della primavera siriana, sono insediati in un gruppo di località nel nord ovest e nel sud del paese; l’Isis, entrato in Siria dal confine iracheno nel 2013, è avanzato nell’intero est del paese, ha stabilito la propria capitale a Raqqa e si è impossessato dei principali campi di estrazione di petrolio e gas; infine i curdi nel nord est, al confine con la Turchia.

Sono stati anni di conflitto spietato, ove un intero paese fuori controllo è stato oggetto di crimini di guerra da parte di tutte le parti coinvolte. Il governo siriano ha imprigionato e torturato nelle prigioni di stato decine di migliaia di attivisti; i ribelli e poi l’Isis hanno compiuto sequestri, estorsioni, esecuzioni di massa, persecuzioni ai danni delle minoranze cristiane e druse.

E non è una guerra locale, ma una vera e propria ‘proxy war’, cioè una guerra per corrispondenza alimentata da potenze globali e regionali che sostengono le diverse fazioni; la Russia è un tradizionale alleato del regime degli Assad, così come l’Iran e la milizia sciita libanese Hezbollah, che ha parte attiva nei combattimenti.  Stati Uniti e altre potenze occidentali armano, addestrano e sostengono i ribelli dell’Esercito Libero; partecipano inoltre al conflitto con raid aerei contro l’Isis, finora con scarso successo. Anche l’Arabia Saudita è a fianco dell’Esercito Libero e contro l’Iran, avversario di sempre per la supremazia in Medio Oriente. Infine la Turchia, che si è unita al fronte anti-Assad, ed è comunque più preoccupata dal consolidamento delle posizioni curde al confine, che delle sorti della guerra civile. Anche l’Isis gode di molti simpatizzanti a livello internazionale: 10-15 mila ‘foreign fighters’, provenienti da paesi musulmani ed europei, ingrossano le fila della milizia a maggioranza medio orientale. Molti finanziatori privati medio orientali aiutano il Califfato, che ore si sostiene anche sui proventi del petrolio.

Una tragedia di cui si fa fatica a vedere la fine. Una fine, o una svolta che le forze in campo in Siria non sono in grado di dare e alla quale possono contribuire i tavoli di confronto a livello internazionale. Infatti è chiaro che l’Isis è il nemico comune. Ma permangono divergenze su punti chiave: quale destino per Assad? Quale ruolo possibile per i ribelli dell’Esercito Libero, che al momento sono schiacciati tra le truppe del Regime e le milizie dell’Isis? E quale il punto d’incontro con la Turchia sul futuro delle popolazioni curde che combattono a suoi confini?

Sono questioni irrisolte e per le quali mancano al momento le basi per un dialogo: i rapporti tra Stati Uniti e Russia sono infatti condizionati dalla crisi ucraina. Ma qualche segnale positivo c’è: Washington è riuscita a portare a termine l’accordo sul nucleare con l’Iran, che è attore importante nella crisi siriana, con il sostegno russo e cinese; la Turchia ha rinsaldato la sua alleanza con gli alleati occidentali dopo la strage di Suruc ed i caccia americani decollano adesso da basi turche per colpire le postazioni del Califfato in Siria. I primi segnali di una possibile svolta anche per la guerra in Siria?

Giuseppe Citrolo

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Giuseppe Citrolo
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