I complottisti lo hanno sempre detto: Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, non si è suicidato. Negli anni, i fan hanno servito loro tutte le prove necessarie: il fatto che il cantante si sarebbe iniettato nelle vene una dose tre volte più alta della norma, trovando però la forza di prendere quel fucile e spararsi con precisione chirurgica; l’assenza di impronte digitali sull’arma o su quella lettera d’addio (“It’s better to burn out than to fade away”), che di morte non parla mai e suonerebbe più come una chiusura al mondo della musica che alla vita; e poi il divorzio da Courtney Love e la sua esclusione dal testamento.
E adesso arriva la conferma dall’ex capo della polizia di Seattle, Norm Stamper, che era in carica quando Cobain venne trovato morto: “Se fossi il capo della polizia attuale, quel caso lo riaprirei”. “Avremmo dovuto studiare meglio tutti i profili della gente che avrebbe voluto Kurt morto – continua Stamper, intervistato in un nuovo documentario sulla rockstar, intitolato “Soaked in Bleach” (“Fradicio di candeggina”, che gioca col titolo del primo disco dei Nirvana, “Bleach”, ndr.) – . Se fosse stato ucciso, anziché essersi suicidato, e fosse stato possibile capirlo mandando più a fondo le indagini, tutta la colpa sarebbe nostra. Era nostra responsabilità“.
Far riaffiorare la verità, a distanza di ventuno anni dalla morte di Cobain, non è un’impresa facile: “Le nuove indagini dovrebbero soltanto far capire cos’è giusto e cos’è sbagliato, dovrebbero riguardare l’onore, l’etica. Se non siamo riusciti a capire la verità la prima volta, dovremmo appurarla almeno la seconda, e vi dico proprio adesso che se fossi io il capo della polizia, riaprirei le indagini. A marzo dello scorso anno, la polizia di Seattle riesaminò brevemente il caso dopo la scoperta di alcune fotografie mai viste provenienti dalla scena del crimine. La conclusione fu che non c’era alcuna nuova prova, e il caso venne nuovamente chiuso.
E mentre il regista Benjamin Statler continua a lavorare al suo “Soaked in Bleach” – il documentario che mostra gli ultimi giorni della rockstar attraverso gli occhi di Tom Grant, l’investigatore privato che Courtney Love aveva assunto per trovare Cobain quando scomparve – l’ex moglie del cantante ha già provato a minacciarne il ritiro dalle sale, sostenendo che il film “presenta una teoria del complotto già ripetutamente sfatata, secondo cui io avrei orchestrato la morte di mio marito”.