Le premesse erano quelle di un boom di incassi per un sequel di cui nessuno avvertiva l’esigenza, e questo si è confermato essere “Jurassic World“.
Lo ammetto: da fan numero uno dei dinosauri di Steven Spielberg, quando la rete è stata invasa dai trailer di questo terzo sequel, avevo già capito che avrebbe segnato la rovina di una saga. Mi era bastata una manciata di fotogrammi. E nonostante i botteghini dicano il contrario (con 500 milioni di dollari nel primo fine settimana di programmazione, Jurassic World è già diventato il film più visto della storia nei weekend d’apertura), non posso che pensarla così.
Evito di scendere nei dettagli tecnici, e ritengo superfluo anche un commento sulla persistente inutilità dei film girati in 3D, perciò ecco il punto veramente critico: la trama. In Costa Rica c’è un parco a tema – che John Hammond, il compianto Richard Attenborough, aveva tentato suo malgrado di lanciare nel 1993 – a metà tra zoo e parco divertimenti, in cui al posto degli animali le gabbie contengono dinosauri. E di per sé, la cosa dovrebbe già bastare e tenere buono il pubblico: guardare un Tyrannosaurus Rex che sbrana una capra dietro le sbarre non è esattamente come guardare un cane della prateria che mangiucchia un po’ d’insalata.
Invece no: siccome il turista occidentale è pigro e insaziabile, anche i dinosauri, dopo un paio d’anni, vanno fuori moda. Grazie a Dio, esiste però l’ingegneria genetica e la possibilità di combinare tra loro le specie, e così ecco arrivare la salvezza del Jurassic World: un nuovo dinosauro cattivissimo, altissimo, fortissimo, resistentissimo e intelligentissimo. Che il pubblico, non si capisce bene perché, amerà più di un branco di Velociraptor o di un Triceratops. Poco importa, poi, se tra tentativi di apertura del parco, missioni di recupero e un altro sequel superfluo (che al confronto, adesso, è il “Tempi moderni” dei film sui dinosauri), sono morte cinquanta persone. Di questa nuova specie killer è importante soltanto la grandezza dei docili denti, che ovviamente – nelle speranze dei loschi gestori capitalisti di Isla Nublar – non faranno altro che divertire il pubblico mentre dilaniano le prede.
Come va a finire? Che preda – contro ogni previsione dello spettatore medio – diventa lo stesso pubblico del parco. A salvare la situazione ci penseranno loro, un Chris Pratt da copertina di Men’s Health che è un po’ Capitan America e un po’ Action Man, e una Bryce Dallas Howard che nella migliore tradizione dei film d’azione è timida e imbranata per 110 minuti, salvo poi riscoprirsi astuta e coraggiosa.
A ciliegina sulla torta, la regia di Trevorrow, schiava degli oggetti in primo piano che tanto stanno a cuore ai fanatici degli occhialini 3D, e l’uso completamente sbagliato della colonna sonora di John Williams, un monumento che fa ancora partire i brividi lungo la schiena nonostante accompagni una magra sequenza in camera del piccolo Ty Simpkins al posto del glorioso ingresso in elicottero a Isla Nublar.
Forse ai produttori sono sfuggiti tre fattori: che la vera fortuna di Jurassic Park la fecero i dinosauri veri di Stan Winston, e non i posticci incanti del 3D; che nessuno dei protagonisti è mai stato un macho, ed era questo a generare l’empatia verso il riservato Alan Grant o il sarcastico Ian Malcolm; che la trama – so che può sembrare strano – è tutto, e il mondo ci ricorda costantemente che senza le giuste fondamenta, gli edifici tendono a fare il botto. Crollando.