Grande successo per la mostra fotografica “Immagina” che segna il debutto dell’artista palermitano Michele Acampora. La personale, già visitata da oltre 5.000 persone, resterà aperta fino a fine maggio nella prestigiosa cornice di palazzo Jung a Palermo. La scrittrice Benedetta Cibrario, vincitrice del premio Campiello 2008 con il libro “Rossovermiglio” (Feltrinelli) e del premio Rapallo Carige 2010 con “Sotto cieli noncuranti” (Feltrinelli) ha visitato la mostra per Si24.
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Michele Acampora è un appassionato lettore. Non di libri. Di persone. Di oggetti. Guarda, osserva, annota, coglie, scopre, intuisce, colleziona e infine cataloga. L’interesse è vagamente assimilabile a quello dell’antropologo ma, a differenza dell’antropologo, Michele Acampora si limita ad annotare.
Da trent’anni va in giro per il mondo – Palermo, Milano, Roma, Londra, New York – con una macchina fotografica appesa al collo. Non si separano mai, Michele e la macchina, perché il mondo – un angolo di strada, due vecchi, un ragazzino, un gioco di luci, un’insegna, una piazza di paese – si rivela nei dettagli imprevisti. Epifanie improvvise, guizzanti. Apparizioni brevissime. Chi ha condiviso con lui qualche ora, che sia stato durante un viaggio esotico o facendo una camminata nel quartiere sottocasa, sa che Michele vede, e fotografa. Osserva, e fotografa. Ascolta, e fotografa. Riflette, e fotografa. Il gesto di fotografare è talmente naturale, per Michele, che può capitare che Michele scatti mentre sta facendo una conversazione con qualcuno, senza interrompere la chiacchierata; si può aggiungere, allora, Michele parla, e fotografa.
Come uno scrittore che prenda appunti o un pittore che faccia schizzi, Michele Acampora sa che il suggerimento va colto all’istante, nell’attimo in cui si materializza davanti a noi. Sa che non è mai ripetibile, dal momento che è frutto di una mescolanza fortuita, in cui contano, allo stesso modo, ciò che vediamo, ciò che siamo, ciò che pensiamo in quel momento.
Un guizzo dell’occhio, la mano corre alla macchina. Michele scatta. Ciò che noi abbiamo a malapena visto, Michele lo ha guardato.
Basta un attimo perché i due vecchi si alzino, il ragazzino sparisca, la luce cambi. Il mondo è movimento, fluidità, mutevolezza; l’obiettivo di Michele Acampora – nel duplice significato di strumento ottico e finalità – si concentra sull’istante. La realtà in cui siamo immersi, anche la più banale e retriva, può riservare sorprese; l’osservazione del quotidiano rivela sorprese; un amico che conosciamo da sempre, la strada di una grande città, uno scorcio di campagna rivelano sorprese.
L’occhio di Michele Acampora fotografa con passione. E questa passione – che come tutte le passioni ha un carattere anche ossessivo – è incontrollabile e incontrollata, sfiora l’intrusività, non ha rispetto per le buone maniere, non si risparmia, non si trattiene; è una passione, appunto, un sentimento umano potente e vitale che non accetta compromessi, non ha momenti di stanchezza, si autoalimenta.
L’archivio di scatti di Acampora – di cui questa mostra presenta una scelta – è sterminato. Abituati come siamo a ragionare protetti e aiutati da griglie interpretative, la prima sensazione è di spaesamento: dov’è il leitmotiv in questa moltitudine stupefacente d’immagini, qual è il filo conduttore che assegna un percorso a questa ricerca? Scorci di città, luci, luoghi esotici o perfettamente riconoscibili e banali, dettagli, una mano, un occhio, un piede; a quale esigenza risponde o quale desiderio placa questa collezione di scatti? È un’ossessione o una ricerca? Che cosa racconta?
Metto le mani avanti: è possibile che cercare in ogni cosa un racconto, una trama, sia un’ossessione personale, la maniera che molti di noi hanno, scrittori o meno, di percepire la realtà sotto forma narrativa. Di organizzarla, catalogarla e sperimentarla come racconto, perché solo come racconto può risultare comprensibile.
Non azzardo un’interpretazione, quello del critico è un mestiere e io, qui, scrivo solo in qualità di osservatrice. Mi limito a una considerazione: negli scatti di Michele Acampora, il fuoco dell’attenzione viaggia sull’asse soggetto fotografante/oggetto fotografato. Non c’è l’inseguimento della fotografia perfetta, la ricerca assoluta della bellezza (o dell’orrore), non c’è intento didascalico, di denuncia o esemplare. C’è una relazione che si produce, per un solo irripetibile istante, tra ciò che Michele vede e ciò che vuole sottolineare, raccogliere, conservare.
Perché voglia fotografare e archiviare, nella sua sterminata collezione di scatti, proprio quel dettaglio, quel passante, quella smorfia, quel panorama, è qualcosa che non sapremo forse mai; a meno di immaginare che nel suo paziente lavoro di raccoglitore e catalogatore di frammenti di realtà ci sia la necessità di fissarli, di sottrarli al tempo. Non siamo davanti a un repertorio di immagini che ci restituiscono la quotidianità in cui siamo immersi quanto davanti alla scommessa che Michele fa – con se stesso, con noi, con la realtà circostante – di riuscire a coglierne l’essenza, di questa realtà. Non un’essenza oggettiva, immutabile, riconosciuta e condivisibile, no; non c’è nulla di asseverativo nelle fotografie di Michele, non c’è l’arroganza di chi si pone davanti alla realtà con la pretesa di coglierne il significato oggettivo e universale.
L’essenza della realtà come la intuiamo dai suoi scatti è piuttosto una proposta, un suggerimento: nelle sue fotografie si intravede ciò che potrebbe essere e, forse, è; ciò che Michele scopre, intuisce e talvolta ruba: un’espressione, uno sguardo, un moto dell’anima. Sono istantanee nel senso che fotografano una realtà volatile, misteriosa, perfino futile. Sono istantanee perché non c’è preallestimento, non c’è preconcetto; non c’è pregiudizio. Non c’è finzione, mai. Tutto quello che entra nel campo visivo di Michele può valere una fotografia, perché l’essenza del reale si può cogliere ovunque, nel dettaglio di un volto o nel riverbero di una luce, nella penombra, in pieno sole. E’ lo sguardo del fotografo l’unico leitmotiv che ricollega tra loro questa galleria di scatti, la ricerca appassionata di chi si serve di uno strumento meccanico per ripetere l’operazione che fa l’occhio umano: vedere, guardare, osservare.
La memoria si presenta sempre, inevitabilmente, come un archivio di immagini. I nostri ricordi, anche quelli più lontani, sono immagini; immagini corredate di emozioni, riflessioni, sentimenti. In ogni caso, immagini. Guardando l’archivio fotografico di Michele Acampora si ha la curiosa sensazione di essere capitati nel gorgo di una memoria che è personale e collettiva insieme. Le fotografie di Michele sono scatti accostati gli uni accanto agli altri, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Una moltitudine. Sfuggono alla conta, sfuggono a una definizione. Umberto Eco, in un altro contesto, ha usato una bella definizione, la vertigine della lista. La prendo in prestito, per la sua efficacia. Anche qui, in questi scatti di Acampora, c’è la vertigine della lista. Nessuna definizione. Nessuna interpretazione. Non si può definire l’indefinibile, numerare l’innumerabile. Le facce con cui si presenta la realtà sono troppo numerose, troppo mutevoli, troppo evanescenti.
Una catalogazione che sottragga e preservi qualche frammento di realtà dall’inevitabile fluire del tempo, pare l’unico atto possibile.