Il Senato sta esaminando il Documento di economia e finanza proposto dal Governo Renzi. Nonostante tutti gli indicatori dimostrino che la crisi abbia colpito maggiormente il Mezzogiorno ed il divario col nord si accresca nessuna misura strutturale viene delineata, come se la questione non esistesse più.
E non si tratta di una svista. Nelle scorse settimane, esponenti del Governo hanno addirittura affermato: “Il 2015 sarà l’anno del Sud, che crescerà in percentuale più del Nord in termini di PIL (il ministro Del Rio); oppure “il tema va riaperto, senza politiche specifiche, solo con politiche generali, ma senza risorse aggiuntive” (il ministro Padoan).
Il Sud ha smesso di essere una “questione” ed è stato rimosso dall’agenda politica. Non ve ne è traccia nelle ultime dichiarazioni programmatiche del Governo statale, nelle deleghe ministeriali, nelle misure di politica economica, scomparso dal dibattito sulla riforma costituzionale, ridotto ai minimi termini negli investimenti infrastrutturali.
Le cose non stanno come le descrive nel DEF il Governo.
La recessione nel periodo 2008-13 ha ridotto gli occupati nel Mezzogiorno di 520.000 unità (-8,2%), oltre due volte e mezzo il calo di 193.000 unità (-1,2%) registrato nel Centro Nord e nel Sud il tasso di disoccupazione (20,7%) è prossimo a quello della Grecia (Centro studi Confartigianato).
Il 28′ Rapporto Sud DISTE/Fondazione Curella evidenzia per l’Italia l’alleggerimento della crisi ed il recupero modesto del PIL, in gran parte ascrivibile a fattori esogeni (calo del prezzo del petrolio, deprezzamento dell’euro, varo del Q.E. da parte della BCE, flessibilità dei vincoli di bilancio), mentre il Sud rimane inchiodato alla crisi.
Il divario cresce. Nello scostamento tra andamento del PIL del centro-nord (+0,7%) e Sud-Isole (-0,4%), quest’ultimo ha registrato nel 2014 una flessione dell’1,3%, sprofondando a -14,5% rispetto al 2007. Immaginando una crescita del PIL regionale costante all’1% bisognerà attendere sino al 2030 per ritornare ai livelli pre-crisi.
Se correliamo la situazione economica con la desertificazione industriale e le tendenze demografiche (invecchiamento, spopolamento, deflusso di capitale umano) l’encefalogramma piatto del Mezzogiorno condanna 20 milioni di persone al sottosviluppo. Il Pil procapite del Sud era il 57% di quello del Nord-Ovest nel 2007, nel 2015 sarà il 55%: i meridionali sono italiani a metà (per PIL, infrastrutture, qualità dei servizi etc.).
Secondo Banca d’Italia nel periodo 2000-2008 i flussi redistributivi reali medi verso il Sud sono stati di circa 56 miliardi di euro all’anno (3,9% del PIL), nel biennio 2009-2010 sono saliti a 60 miliardi (4,4%), per poi ridursi a 44 miliardi dal 2012 (3,2%).
Solo la coesione può assicurare la crescita e rendere competitivo il Paese. 6600 chilometri di strade e 715 di autostrade, in vent’anni la Germania ha riversato nei lander dell’Est enormi risorse, ed oggi quel Paese è la locomotiva economica e politica del continente, mentre l’Italia repubblicana ha offerto al Sud neanche un quinto di quello sforzo.
In Sicilia, poi, la vicenda assume connotati paradigmatici e, per alcuni versi, paradossali.
Di fronte alla grave crisi, ai crescenti vincoli finanziari, al crollo degli investimenti, all’esigenza di una seria revisione della spesa c’era una sola strada da intraprendere: riforme strutturali e definizione del negoziato finanziario con lo Stato impostato nel 2012. Senza azione riformatrice e risanamento il disastro finanziario è in atto.
A questo si aggiungono i 4 miliardi di euro di entrate derivanti da contenziosi costituzionali ai quali il governo regionale ha rinunciato, per soli 500 milioni di spazi finanziari.
È solo di qualche giorno fa un’altra sentenza-beffa della Corte costituzionale (n.69/2015) che riconosce il diritto della Regione a percepire l’addizionale sulle accise relative alle tariffe elettriche, ma che non produrrà effetti per le casse in difficoltà proprio per questa irragionevole rinuncia firmata dal Presidente della Regione.
Si ricorre adesso a circa 1,5 miliardi di nuovo indebitamento. (l.r. 4/2015 e ddl finanziaria 2015), che appesantirà la finanza regionale per decenni, per garantire spesa corrente ed entrate dubbie (inserite nella l.r. 3/2015 e nel ddl di bilancio 2015). Mancano oltre 3 miliardi per quadrare il bilancio, mentre alla Sicilia, nell’ultimo anno, sono stati sottratti circa 9 miliardi tra risorse per investimenti del Piano di azione e coesione (PAC) e del Fondo di sviluppo e coesione (FSC), oltre a quelli stornati dallo Stato (1,2 miliardi con legge di stabilità 2015 o come quelli destinati al cofinanziamento dei fondi della programmazione UE, passato dal 50 al 25% in Sicilia, ma non in Puglia) o addirittura restituiti dalla Regione (1,1 miliardo, art. 3 l.r. n.3/2015).
Non c’è più tempo, nessuno si senta al riparo. Per salvare il Sud e la Sicilia dal default occorrono riforme strutturali, investimenti, fiscalità di sviluppo connessa all’insularità e classi dirigenti competenti e credibili.