Proprio un anno fa abbiamo iniziato questa rubrica partendo da Capo Passero, uno dei tre vertici della Sicilia, quello a sud-est. A distanza di 12 mesi ci spostiamo all’estremità opposta nei pressi di capo Lilibeo per visitare qualcosa di unico al mondo: la riserva dello Stagnone di Marsala.
Questa particolarissima laguna, dove il mare si confonde con la terra, separata dal Mediterraneo dall’Isola Grande (o Isola Lunga), e delimitata sul suo versante occidentale dalle saline di Marsala, attira da decenni turisti da tutto il mondo per l’eccezionale bellezza del paesaggio, per l’incredibile fascino dei tramonti, e per la straordinaria importanza della sua storia. Eccezionale, incredibile e straordinario sono aggettivi che andrebbero utilizzati per descrivere ogni centimetro di questo lembo di terra, risulterà pertanto difficile non ripetersi. Proverò a ometterli.
Negli ultimi anni mi è capitato spesso di scegliere questo angolo di Sicilia così particolare per una delle mie gite o semplicemente per godermi un tramonto, ma quest’ultima volta ho avuto il privilegio di essere accompagnato dal mio amico Toti, bravissimo chirurgo vascolare, grande conoscitore dello Stagnone, delle sue storie e delle contrade che vi si affacciano, una dopo l’altra: Spagnola, Nubia (famoso l’aglio rosso di Nubia), San Teodoro, etc.
Basta percorrere la strada provinciale litoranea che da Trapani porta a Marsala, per raggiungere le Saline Ettore e Infersa (dal nome delle contrade): un’immensa scacchiera di un bianco accecante di giorno, che al calar del sole si tinge di tutte le tonalità di rosso. Dal piatto della laguna, come per magia emergono i mulini a vento, come quelli delle favole o dei cartoni animati.
Questi affascinanti reperti di archeologia industriale, molti dei quali restaurati, sono parte del Museo delle attività salinifere, testimonianza di un lavoro antico ma ancora vivo, anche se ormai i salinari sono rimasti in pochi. Basta guardare i cumuli di sale tutti uguali, completamente esposti al sole d’estate, o coperti da coppi di terracotta disposti con precisione millimetrica, per capire che questo non è un mestiere qualunque, ma un’arte, tramandata nel tempo, dove occorrono non solo la capacità di resistere al sole accecante e alle alte temperature ma anche grande esperienza.
La raccolta del sale allo Stagnone è favorita dalle peculiari condizioni ambientali: fondali bassi e impermeabili, clima asciutto per circa sei mesi l’anno, intensa salinità delle acque, assenza di piogge per lunghi periodi, e frequente presenza di venti che facilitano l’evaporazione e azionano i mulini. Col passare dei secoli l’attività della salina è rimasta sostanzialmente la stessa.
La completa evaporazione dell’acqua dalle vasche meno profonde lascia una crosta solida che viene frantumata a mano con un attrezzo simile ad una pala. Il sale viene poi ammucchiato in piccoli cumuli, quindi, caricato sulle “carriole”, e con l’aiuto di un nastro trasportatore (una delle poche concessioni alla modernità) viene fatto confluire in un cumulo più grande la cui superficie viene successivamente coperta con tegole e coppi per evitare che la pioggia dilavi il sale faticosamente raccolto, prima di essere trasportato alla raffineria.
In una tersa mattina di ottobre ho avuto la fortuna di vedere i salinari in azione: ognuno ha il suo ruolo, nulla nei loro movimenti è casuale. Ai margini della salina le due figure più rappresentative: il curatolo e “u signaturi”.
Il primo è il responsabile di tutta l’attività della salina, decide quando e da quale casella iniziare la raccolta, e pertanto deve avere sulle spalle anni di gavetta. U signaturi” invece, seduto su una seggiola, segna le “carriolate” di sale scaricate da ciascuno dei salinari. Un tempo questa conta era scandita da una cantilena che ormai soltanto i più anziani ricordano: “O-hé! Cala i sali arrera! – Ora tucca a lu re cu primavera – O-hé! Sali unu e dui! – O-hé! Sali trini! – E chidda mia e quattru avìa! – Abbattiti la mia e cincu avìa! – Ora tagghiamuccilli e una avìa!”.
Un’altra caratteristica dello Stagnone è quella di ospitare numerose varietà di uccelli acquatici: anatre selvatiche, aironi e in particolare i fenicotteri trovano nelle tiepide acque della laguna un confortevole habitat. Basta passeggiare lungo le rive per vederli appollaiati spesso su una zampa, oppure volare intorno alle pale dei mulini (Foto diToti Benvegna).
Dal canale che divide le saline Infersa (credo la più attiva) e Ettore, partono i barconi per il tour delle isolette e in particolare per l’irrinunciabile visita a San Pantaleo, l’antica Mozia: 40 ettari di storia. Fu scelta dai Fenici, popolo di grandi navigatori e commercianti, perchè era un approdo perfetto: protetto dal mare aperto e dalle intemperie, al centro del Mediterraneo, punto nodale di traffici commerciali. Non sono certo io la persona più indicata a scrivere dell’importanza storica e archeologica di Mozia, ma posso consigliare, a chi non lo avesse già fatto, una passeggiata lungo il perimetro dell’isola dove potrà trovare, nelle edicole strategicamente disposte, le notizie relative ai vari siti.
Completato il giro è d’obbligo l’ingresso al Museo Whitaker per ammirare il “Giovane di Mozia” (V sec. a.C.), quella che lo scrittore Dominique Fernandez (nel suo “Viaggio in Sicilia”) definisce “la statua che non ha paragoni al mondo”, e poi “… un connubbio di virilità e femminilità”. Interessante la storia della di questo importantissimo reperto ritrovato nell’ottobre del 1979 durante una campagna di scavi, sotto un cumulo di detriti, in posizione supina, con la testa spezzata ma in situ, e priva delle estremità superiori e inferiori.
I primi momenti della sua scoperta e del suo trasferimento dal luogo di rinvenimento alla palazzina Whitaker sono entrati nella storia dei racconti moziesi: la picconata dell’operaio sul ginocchio della statua, la veglia notturna del custode per non lasciare incustodita la statua, il viaggio sul trattore dal luogo di rinvenimento col prezioso reperto avvolto nei materassi e nelle coperte dei custodi per evitare danneggiamenti, hanno contribuito ad accrescere il mito del “Giovane di Mozia”.
Tanto che nel 1988 fu esposta sulla sommità dello scalone d’onore di Palazzo Grassi a Venezia in occasione della prima mostra mai organizzata sui Fenici. La statua accoglieva i visitatori su una base realizzata apposta dall’architetto Gae Aulenti. Oggi è possibile ammirarla, senza supporti che ne deturpino la bellezza, nel nuovo allestimento creato al Museo Whitaker grazie al contributo di Banca Nuova. A proposito dei Fenici una curiosità: furono i primi a colorare i tessuti. Impararono ad estrarre dalla macerazione di un murice (il mollusco che a Palermo chiamiamo “mmuccune” con due m iniziali) una sostanza colorante per tingere di rosso porpora le loro vesti. Un particolare che a me, collezionista di conchiglie, non poteva sfuggire.
Ritornati sulla terraferma, dopo aver acquistato una piccola scultura da Peppe Genna, poeta-scultore sempre presente davanti all’imbarcadero, consiglio a chi ama i posti animati, una puntata da “Incanto” (di nome e di fatto), nella frazione Vecchia Birgi. Un vero paradiso per windsurfisti e kitesurfisti che arrivano da tutto il mondo. Attirati dalle basse e calde acque dello Stagnone. Lì è possibile rifocillarsi con un buon piatto di cous cous e un bicchiere di vino, al ritmo della musica, assistendo a partire da mezzogiorno a un tourbillon di vele e di kitesurf che volteggiano ininterrottamente fino al tramonto. Gioventù, allegria, spensieratezza…non posso resistere, l’invidia mi divora!!!!
Per chi invece ama la tranquillità suggerisco una deviazione per la Torre di San Teodoro, lì dove il mar Tirreno entra nella laguna. Nel piccolo chiosco proprio sul mare, aperto tutto l’anno, è possibile mangiare in assoluta tranquillità un buon piatto di spaghetti o semplicemente sorseggiare una birra, con i piedi “a mollo”. L’ultima “chicca” sullo Stagnone è ancora Toti a offrirmela. Ci sono certe mattine in cui l’acqua è immobile, senza la benchè minima increspatura, praticamente uno specchio: è l’albarìa (Foto di Toti Benvegna).