Era la mattina del 3 ottobre 2013. Le agenzie diedero la notizia di un barcone che si era incendiato al largo dell’isola di Lampedusa. I migranti su quell’imbarcazione di fortuna cercavano calore sotto una coperta, vicino a dei piccoli focolai che avevano acceso. Le fiamme esplosero senza controllo. La paura, la concitazione, il tentativo di allontanarsi dal rogo fecero ribaltare l’imbarcazione. Centinaia di persone, uomini e donne e bambini, che non sapevano nuotare, si ritrovarono in alto mare. Altrettante persone rimasero bloccate nella stiva, nell’impossibilità di uscire da quella stretta e claustrofobica botola da cui erano entrati.
Ogni mezz’ora, più o meno, un nuovo bilancio delle vittime. 10 morti. 30 morti. 70 morti. 100 morti. Era ora di prendere quel volo organizzato per i giornalisti e andare a Lampedusa, per raccontare il dolore e l’orrore. Atterrata sull’isola, la realtà con cui mi scontrai, non era soltanto un fatto giornalistico da raccontare, ma un’esperienza dolorosa che ognuno viveva come se il dolore fosse il proprio. E sono cinque i ricordi indelebili che porto con me.
Il silenzio. Giornalisti, italiani e stranieri, operatori video, fotografi, tecnici atterrammo a Lampedusa nel tardo pomeriggio. Ognuno al telefono con il proprio direttore, il proprio editore, segretari di redazione per capire dove dormire, dove sistemare le telecamere, dove andare per seguire le operazioni di recupero dei corpi dal mare. Tutti al telefono, ma a voce bassa, senza urlare, come se un comando non pronunciato avesse trovato tutti d’accordo nell’intenzione di non disturbare un’isola che stava affrontando al meglio delle proprie possibilità un dolore troppo grande, accaduto a pochi chilometri dalla propria terra. Lo stesso silenzio regnava sul molo del porticciolo, da dove le imbarcazioni della capitaneria di porto e dei vigili del fuoco partivano e arrivavano, trasportando i cadaveri recuperati in mare e sul barcone affondato.
Quella luce all’orizzonte. Sul molo Favaloro c’era tanta gente, ognuno impegnato a fare qualcosa. C’era anche chi, soprattutto i lampedusani, restava seduto sullo scooter, braccia conserte, volto contratto, a guardare il mare. Ho guardato nella stessa direzione e l’ho visto: un cerchio di luce all’orizzonte. Le luci dei gommoni e delle imbarcazioni di salvataggio, la luce degli elicotteri in cerca. Eccolo il punto in cui il barcone è affondato. Ecco l’area in cui magari, ancora, qualcuno in vita stava aspettando che lo vedessero, che lo salvassero. Quella luce nel cuore della notte era triste quanto il pensiero di quello che si trovava lì in mezzo.
La botola. Il giorno dopo la prima notte di ricerche, il ministro degli Interni Angelino Alfano, tenne una conferenza stampa al molo Favaloro. Tutti di corsa per cogliere le sue prime battute, i suoi ringraziamenti ai salvatori, le sue promesse per il futuro, perché una tragedia del genere non dovesse ripetersi. Osservavo i barconi di precedenti viaggi ancorati al molo. Un poliziotto mi avvicinò: “Venga a vedere la botola”, e mi indicò un piccolo buco nel ponte. Era l’ingresso alla stiva. “Lì dentro vengono stipate centinaia di persone – mi raccontò. – Nel barcone affondato la scorsa notte ce n’è ancora così tante e riuscire a recuperarle non è per niente facile”. Ricordo ancora le parole di uno dei primi sommozzatori entrati nella stiva allagata: “Corpi uno sopra l’altro, un’ecatombe”.
Le scarpe nuove dei bambini morti. Secondo giorno a Lampedusa, conferenza stampa al Poliambulatorio dell’isola con il responsabile Pietro Bartolo, che si era occupato delle ispezioni cadaveriche sui migranti morti e recuperati: “I bambini morti che abbiamo raccolto indossavano i vestiti più belli, le scarpette nuove con le suole non ancora lise”. Era così che le mamme e i papà volevano che iniziasse la nuova vita dei propri bambini: vestiti bene, con le scarpe nuove. “Fa male vederli e immaginare il futuro che non avranno”, disse Bartolo.
Il sindaco Giusi Nicolini. Politica e Istituzioni erano lontane da Lampedusa da anni, ormai, indifferenti agli arrivi, agli sbarchi, alle migliaia di persone che ogni giorno approdavano sulla piccola isola del Mediterraneo, che nel loro immaginario era già Europa. Il 3 ottobre, e nei giorni a seguire, arrivarono ministri, sindaci, assessori, rappresentanti dell’Unione europea. Una sfilata di autorità. Ma io ricordo lei, il sindaco coraggio di Lampedusa Giusi Nicolini, sotto i riflettori, a ogni ora del giorno e della notte, in diretta tv al fianco di tutti i suoi “ospiti”. Il volto scavato, stanco: lei non era lì per parlare di Politiche per l’immigrazione e interventi congiunti: lei stava soffrendo davvero per il suo mare macchiato di sangue.