Voto 8 – a Daniele Ciprì. Bellissima la fotografia del film La vita oscena, di cui è il direttore. Davvero raffinata e coinvolgente, fin dalle prime scene regala alla pellicola un tocco da maestro.
Voto 7.5 – a One on One. Una realtà intrisa di violenza senza riscatto. Kim Ki-Duk ci ha già abituato a scene forti, fin quasi al limite del sopportabile, così One on One non è una sorpresa in questo senso. Questo tema del “delitto e castigo”, che altri film trova la redenzione proprio nella sofferenza del corpo, sembra non avere soluzione in questa pellicola. Quando tutti i tasselli della storia (che si combinano poco a poco, stratificando le vite di vittime e carnefici al punto tale da non riuscire quasi più a distinguere la categorie di giusto e sbagliato, com’è tipico della cinematografia orientale) vanno al loro posto, ci si accorge che il male è spesso ordinato da gerarchie talmente alte e complesse che se n’è persa traccia e significato, rendendo gli esecutori operatori di una violenza ormai fine a se stessa. Ma lo stesso discorso vale per la vendetta. Come detto nel film, “Il nostro torturarci a vicenda è la forza che ci tiene in vita”. Un po’ lento il dipanarsi della narrazione, a causa dell’eccessiva quantità di informazioni che lo spettatore deve collezionare per completare il puzzle, ma il film si riscatta nel finale.
Voto 7,5 – a The Look of Silence. Con questo film Joshua Oppenheimer continua il percorso iniziato in The Act of Killing. Ancora una volta il regista mette a nudo, con linguaggio crudo e scarno, i massacri avvenuti in Indonesia nel 1965 dopo il colpo di stato del generale Suharto. Stavolta l’occhio della camera si ribalta e, invece di raccontare la storia attraverso i racconti dei militari degli squadroni della morte, affronta il dolore delle famiglie delle vittime della rivoluzione. Un film-documentario che non lascia indifferenti, dove il regista inserisce alcune immagini metaforiche che raccontano il suo punto di vista senza invadere la storia. Peccato che la forma documentaristica allontani un po’ lo spettatore, impedendogli un vero contatto empatico con il film.
Voto 7 – a Riccardo Scamarcio. Lo ritroviamo a Venezia nei panni (ancora inesperti, lo ammetto lui stesso in conferenza stampa) di produttore associato di La vita oscena. Un cambiamento che sembra avergli giovato, dal momento che, con la maturità, sembra essere molto più affascinante e interessante. Archiviato il belloccio coatto di 3 metri sopra il cielo, Scamarcio acquista punti. Ora vedremo cosa ci serveranno i film (anche il prossimo della Golino) che sta producendo.
Voto 6 – a Melbourne, opera prima di Nima Javidi. Claustrofobica prova d’attore per Payman Maadi (già apprezzato protagonista del film vincitore dell’Oscar Una separazione), che regge un intero film girato nello stesso spazio, un appartamento. Una coppia iraniana in procinto di traferirsi a Melbourne, si vede affidare per poche ore la bimba di un vicino di casa. Alla scoperta dell’improvvisa morte nel sonno della neonata, dovranno affrontare il ritorno del padre della piccola e i problemi emotivi e morali legati all’evento. Ottima l’interpretazione di un film non facile da parte dei due protagonisti, ma la pellicola attraversa alcuni momenti di stanchezza narrativa.
Voto 5,5 – a La vita oscena di Renato De Maria. Molti fischi e tiepidi applausi in sala durante la proiezione in cui erano presenti pubblico e stampa. Un film che si avvale degli splendidi monologhi tratti dall’omonimo libro di Aldo Nove e della magnifica fotografia di Daniele Ciprì potrebbe puntare molto più in alto. Peccato che, di tanto in tanto, l’eccesso di ricercatezza estetica o estetizzante – che accomuna molta cinematografia “colta” nostrana – prenda il sopravvento e renda il film insopportabile. De Maria, insomma, strafà, e fa strafare al suo buon cast. Pessima la scelta dell’inquadratura finale, stucchevole come troppi film italiani degli ultimi anni. C’è da pensare che sia un peccato, un’occasione persa.