Sfatato il mito della distribuzione economica nel nostro Paese? Secondo uno studio realizzato dall’Università Bocconi i salari italiani più alti sono al Sud. Sembra infatti che lavorare a Caltanissetta renda più che trovare un’occupazione a Milano.
L’analisi di Sergio Rizzo pubblicata sul Corriere della sera non lascia spazio a dubbi: “Un cassiere di banca ragusano con cinque anni di anzianità ha uno stipendio del 7,5% inferiore al suo collega milanese. Se però si tiene conto del differente costo della vita, allora scopriamo che la sua busta paga è più alta del 27,3%. E non è ancora tutto, perché per avere il medesimo potere d’acquisto del cassiere di Ragusa, il bancario di Milano dovrebbe guadagnare addirittura il 70% in più”.
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E gli esempi continuano. Gli insegnanti di scuola elementare hanno lo stesso stipendio in tutta Italia. Ma se si prende in considerazione il diverso indice dei prezzi al consumo la busta paga di Ragusa “si gonfia” rispetto a quella di Milano. “Per pareggiare il potere d’acquisto dell’insegnante ragusano il maestro milanese dovrebbe avere uno stipendio più pesante dell’83%, sottolinea una ricerca che verrà presentata domani a Roma dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti”.
La Provincia di Bolzano, dove i salari nominali sono i più elevati d’Italia, di quelli reali se si considera la differenza del costo della vita, scivola quasi in fondo alla classifica, al numero 92. Così Aosta, che dal secondo posto passa al 95. Esattamente al contrario di Crotone, che dalla posizione 95 per i salari nominali balza alla seconda per quelli reali. Appena davanti a Enna, Biella, Siracusa, Pordenone, Vercelli, Taranto, Vibo Valentia e Mantova. Tra le dieci province italiane con i più alti salari reali le meridionali sono ben sei. Prima in assoluto, Caltanissetta.
Conclusione, la “compressione dei salari”, come viene definita nella ricerca, è causa di maggiore disoccupazione e disuguaglianza nei salari reali a favore del Sud, e di prezzi più cari delle abitazioni e squilibri nei redditi e nei consumi a favore del Nord. Una situazione tale da creare le condizioni per “frenare la crescita senza migliorare le prospettive del Sud”. La svolta, secondo gli autori, sarebbe dunque in un legame più stretto fra retribuzioni e produttività, con gli accordi locali che dovrebbero prevalere sui contratti nazionali.