Aprivano imprese nel settore edile e tessili e poi le facevano fallire non pagando i fornitori e vendendo i prodotti in nero servendosi del potere intimidatorio della mafia. È la tecnica di arricchimento del clan Mazzei il cui reggente era Sebastiano, figlio dello storico capomafia Santo. A scoprirla la guardia di finanza di Catania che ha arrestato questa mattina 11 persone (leggi i nomi), compreso un luogotenente delle Fiamme gialle. Altri 5 militari, estranei a fatti di mafia, sono ai domiciliari per false attestazioni in blitz antidroga.
Il militare della guardia di finanza arrestato, da suoi colleghi del comando provinciale e da uomini dello Scico di Roma che hanno indagato anche su di lui, è il luogotenente Francesco Caccamo, 53 anni, originario di Palermo, in servizio al ‘gruppo’ del capoluogo etneo. È accusato di avere dato un “contributo causale all’associazione di stampo mafioso”. Arrestate anche altre 10 persone, compreso il boss Sebastiano Mazzei, figlio di Santo, reggente dell’omonimo clan noto come quello dei ‘carcagnusi’.
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I reati ipotizzati, a vario titolo, sono di intestazione fittizia di beni, estorsione e bancarotta fraudolenta, reato al quale la procura di Catania contesta per la prima volta anche l’aggravante dei metodi mafiosi. Durante l’operazione, denominata ‘Scarface’, sono stati sequestrati beni per oltre 65 milioni di euro: società di costruzione, ville, magazzini, un lido balneare e una discoteca. Un distinto filone investigativo, collegato all’inchiesta ‘Scarface’, ha fatto emergere le posizioni, estranee alle vicende mafiose del clan, di altri cinque militari della guardia di finanza in servizio a Catania che sono stati sottoposti agli arresti domiciliari per false attestazioni e omissioni nel corso di un’operazione antidroga.
Secondo quanto emerso delle indagini della guardia di finanza di Catania coordinate dalla Dda della Procura etnea i componenti dell’organizzazione mafiosa preposti alla gestione degli affari economici del clan, dopo aver fittiziamente creato, anche nel centro e nel nord Italia, alcune società operanti per lo più nei settori dell’edilizia e delle lavorazioni tessili, intestandone le quote a prestanome. Poi provvedevano all’acquisto di prodotti e materiali per rilevanti importi senza pagare, facendo leva sul potere di intimidazione mafiosa. Ci sarebbero stati episodi di violenze e minacce sia nei confronti di fornitori-creditori sia di clienti ai quali non era stata emessa la fattura fiscale. Il sistema così ideato, operando a monte (acquisti di merce non pagata) e a valle (vendite in nero), realizzava l’illecito arricchimento degli associati e il progressivo depauperamento delle società, fino al loro fallimento.
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