Nel processo sulla Trattativa Stato-mafia i riflettori sono nuovamente puntati sull’ex affiliato del clan di Brancaccio, Gaspare Spatuzza. Il collaboratore di giustizia sarà ascoltato oggi nell’aula bunher di Rebibbia, a Roma.
Trasferta, dunque per la II corte d’Assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto. E in aula ci sarà anche il pm Nino Di Matteo, insieme al procuratore Vittorio Teresi e i sostituti Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.
La deposizione è stata preceduta da una schermaglia processuale tra la difesa dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, tra gli imputati, e i pm. Il difensore di Dell’Utri, l’avvocato Giuseppe Di Peri, ha chiesto che venga depositato agli atti del processo il verbale illustrativo della collaborazione di Gaspare Spatuzza, una mossa finalizzata a dimostrare l’inattendibilità del pentito che non ha parlato, nella dichiarazione di intenti imposta dalla legge ai collaboratori di giustizia, delle notizie apprese dal boss Giuseppe Graviano su Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
Per il legale, Spatuzza ha parlato delle circostanze riferite da Graviano dopo i 180 giorni che la legge indica come termine massimo entro il quale i pentiti devono dire all’autorità giudiziaria quanto a loro conoscenza. Le dichiarazioni tardive vennero bollate dalla corte d’appello di Palermo che condannò Dell’Utri nel 2010 per concorso in associazione mafiosa e che stigmatizzò il comportamento di Spatuzza dichiarandolo inattendibile. La Procura ha depositato un verbale illustrativo aderendo all’istanza del legale.
Ma il difensore ha sostenuto che quello prodotto dai pm non è il verbale da lui richiesto, esistendone uno precedente. La Procura ha replicato che quello a cui il legale ha alluso è solo il primo verbale di interrogatorio reso dal collaboratore, non il verbale di intenti.
Poi parla Spatuzza. “Purtroppo, e mi dispiace tantissimo, ho commesso, con vari ruoli, una quarantina di omicidi”. Comincia così, con la confessione dei delitti a cui ha partecipato, la deposizione del pentito. Tra gli assassinii commessi il collaboratore cita quello di don Pino Puglisi, il sacerdote di Brancaccio ammazzato nel ’93. “Padre Puglisi voleva impossessarsi del nostro territorio. – ha raccontato – Prima lo controllammo, poi si decise di ucciderlo. Volevamo simulare un incidente perché sapevamo che un omicidio di un prete avrebbe avuto conseguenze, poi però optammo per il delitto classico”.
“Era un sacerdote che andava per conto suo – ha raccontato – E dava fastidio. Quella della sua eliminazione era una pratica aperta da almeno due anni”. “In piena campagna stragista – ha spiegato – nonostante avessimo sospeso le attività ordinarie, dovemmo occuparci di don Puglisi: questo per fare capire quanto dava fastidio”. Spatuzza fu tra gli esecutori materiali del delitto insieme a Salvatore Grigoli. “Si decise di simulare una rapina – ha detto – Usammo una pistola di piccolo calibro per dissimulare la mano mafiosa”. “Un capomafia – ha spiegato – non poteva tollerare che un prete si muovesse per conto suo e doveva dimostrare chi comandava a Brancaccio”.
“Non era un ragazzo, né un vecchio. Doveva avere 50 anni. Non l’avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Di certo non era di Cosa nostra”. Con queste parole il pentito Gaspare Spatuzza, che sta deponendo al processo Stato-mafia, descrive il misterioso uomo incontrato il giorno prima della strage di via D’Amelio nel garage in cui venne portata la 126 imbottita di tritolo e fatta poi esplodere. “In questi anni – ha aggiunto – mi sono sforzato di dare indicazioni su di lui, ma lo ricordo come un negativo sfocato di una foto”.
Il personaggio, ancora non identificato, partecipò dunque alla fase preparatoria dell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, secondo il pentito. Spatuzza ha descritto il suo ruolo nel furto della 126 e delle targhe da sostituire e nel trasferimento della macchina da Brancaccio al garage nella zona della Fiera di Palermo, a poca distanza da Via D’Amelio. “Non mi allarmò la presenza di quell’uomo – ha raccontato – perché se era lì era perché Giuseppe Graviano (il boss di Brancaccio ndr) lo voleva”. Negli anni gli inquirenti hanno sospettato che il personaggio descritto dal pentito appartenesse ai Servi segreti o fosse l’esperto usato dalla mafia per gli aspetti tecnici dell’attentato.
Dopo le stragi di Roma e Milano nel ’93, progettammo dei sequestri di persona per finanziare la nostra attività: avevamo già scelto gli obiettivi e i nascondigli. Dovevamo rapire il nipote di un imprenditore che aveva una fabbrica di argenteria a Brancaccio e il proprietario del Giornale di Sicilia Ardizzone – aggiunge – Il piano, che poi fu accantonato, era in fase avanzata – ha aggiunto – E Graviano con una battuta mi disse: ‘affidiamo i sequestrati ai latitanti, gli diamo un po’ di lavoro'”.
“A fine ’93 incontrai Graviano a Campofelice di Roccella per pianificare un attentato ai carabinieri. Gli obiettai, alludendo alle bombe di Milano e Firenze, che ci stavamo portando dietro troppi morti innocenti. E lui mi rispose che era bene così perché chi si doveva muovere si sarebbe mosso – prosegue il pentito Spatuzza, ex braccio destro del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano – Il capomafia avrebbe chiesto a Spatuzza se si intendeva di politica e, davanti alla sua risposta negativa, avrebbe commentato: “C’è in piedi una situazione che, se va a buon fine, darà benefici a tutti, in primis ai detenuti”. Parlando delle stragi del ’93 nel Continente il pentito ha detto che “Cosa nostra aveva intrapreso la strada terroristica”.
Interrogato dal pm Francesco Del Bene, nell’aula bunker di Rebibbia, Spatuzza, ha raccontato un episodio che sarebbe accaduto a gennaio del 1994 quando Spatuzza e un nutrito numero di killer di Cosa nostra erano a Roma per organizzare un attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico, poi fallito. “Con un’aria gioiosa mi disse – ha raccontato – che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza”. “Poi – ha spiegato – aggiunse che quelle persone non erano come quei 4 crasti (cornuti, ndr) dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra”. “‘Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene'”, avrebbe detto Graviano. “Poi – ha continuato – mi fece il nome di Berlusconi e aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”. Il boss avrebbe aggiunto che era necessario continuare a preparare l’attentato ai carabinieri perché – disse – “gli dobbiamo dare il colpo di grazia”.
“Mafia, camorra e ndrangheta erano d’accordo nel fare questo colpo di Stato”: ne è convinto il pentito. Il collaboratore di giustizia parla del sospetto di un’unica strategia stragista che avrebbe legato le varie mafie nel ’93. Un sospetto alimentato da quanto gli disse il boss Filippo Brancaccio, che gli parlò di un attentato della ‘ndrangheta ai carabinieri proprio quando Cosa nostra pensava alla strage dell’Olimpico in cui dovevano morire centinaia di militari, e di un progetto di attentato della camorra a cui la mafia avrebbe dovuto dare un apporto. Il processo è stato rinviato a domani per il controesame di Spatuzza da parte dei legali degli imputati.