I 46 siti di streaming chiusi sono di nuovo accessibili: secondo quanto riportato da Repubblica.it, la Guardia di finanza di Roma è stata costretta a contattare gli ISP e rimuovere il blocco IP imposto in quanto altri siti “innocenti” erano stati oscurati perché facenti riferimento allo stesso codice numerico.
Tra gli operatori, alcuni hanno sbloccato completamente l’accesso ai siti mentre altri hanno attuato un blocco DNS, facilmente raggirabile e soprattutto legale (non lo è però il download dagli stessi siti).
“I siti pirata di contenuti audiovisivi non sono creati per la passione del cinema – ha dichiarato il Comandante Paolo Occhipinti del Nucleo Speciale GdF per la Radiodiffusione e l’Editoria – Si reggono sul numero milionario di click che ricevono giornalmente che sono un’ottima base per fare pubblicità diretta a decine di milioni di persone. Nel momento in cui si interrompe il flusso della pubblicità si interrompe anche il flusso di denaro”.
Piuttosto che sui portali in sè, bisognerebbe agire sui flussi di denaro derivanti dagli introiti, appunto, delle pubblicità: un taglio ai banner equivale a un taglio del guadagno, e dunque alla chiusura dei siti.
Dello stesso parere si sono dette le associazioni di categoria come AGIS (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo), ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali), FAPAV (Federazione per laTutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali) e UNIVIDEO (Unione Italiana Editoria Audiovisiva – Media Digitali e Online).