Una spia che potrebbe avvisarci delle eruzioni vulcaniche si nasconde proprio nel cuore dei vulcani stessi. Una ricerca condotta negli Usa e pubblicata sulla rivista Nature che se confermata da nuovi studi potrebbe aprire una strada nuova verso la previsione dei fenomeni vulcanici che spesso sono disastrosi per la vita degli uomini. Secondo i ricercatori americani Kari Cooper e Adam Kent il segnale individuato è rappresentato da enormi masse magmatiche che, a temperature altissime, diventano in gran parte liquide e in grado di muoversi nel sottosuolo con grande semplicità. Ma si tratta di una condizione estremamente rara e l’idea dei due scienziati è quella di ricostruire la storia del magma e le condizioni in cui viene, nel corso di migliaia di anni, immagazzinato. La teoria di Cooper e Kent è stata testata sul Monte Hood, un vulcano attivo dell’Oregon.
I ricercatori analizzando i materiali che si sono prodotti nelle due ultime eruzioni del vulcano hanno capito che per il tempo in cui il magma rimane all’interno del vulcano si trova in una condizione molto densa e viscosa. Una condizione, questa, che dura per migliaia di anni, ma che nel breve periodo può subire pesanti modificazioni. Infatti l’afflusso di magma nuovo possono aumentare la temperatura di quello già presente nella camera magmatica riducendo la viscosità e aumentando così la sua mobilità e la possibilità di eruzione. Quindi pur essendo una condizione rarissima, che dura poco più di due mesi contro l’accumulo di migliaia di anni, è quella ideale affinché il vulcano cominci la sua eruzione.
Ma sembra che la teoria non sia condivisa in toto dagli esperti e dagli istituti di vulcanologia europei ed italiani. Secondo l’Ingv il vulcano preso in considerazione molto particolare e non è possibile fare un confronto con altre realtà. Sembra quindi che ancora ci sia molta strada da fare per avere conferme della teoria.
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