Responsabilità che si diluiscono nel tempo per una questione che deve rimanere centrale. Il caso dei marò italiani accusati dell’omicidio di due pescatori indiani e che, secondo le indiscrezioni che giungono da Nuova Delhi, rischiano addirittura la pena capitale, non può essere solo un problema italiano, proprio per i toni che la vicenda sta assumendo e le conseguenze che vengono lasciate aleggiare.
In India, dove è in corso la campagna elettorale, il caso è divenuto sempre più spinoso e ciascuno dei candidati in corsa mostra i muscoli davanti ai nostri militari per raccattare qualche voto in più. Ogni segnale di dialogo, di mediazione potrebbe essere scambiato per una debolezza in favore del ‘barbaro invasore’; un affaire politico, però, che si gioca sulla testa di due persone che si trovavano ad operare in quei mari in nome e per conto dell’Italia.
A queste latitudini abbiamo sempre collegato l’India ai racconti affascinanti di Salgari, ai miti esoterici di quei luoghi e soprattutto agli insegnamenti del più rappresentativo degli indiani: Gandhi. L’uomo fortissimo in virtù della non violenza, della mitezza e del dialogo che in Italia continuiamo giustamente ad indicare come esempio di risoluzione nelle situazioni difficili e controverse. Ci piace ricordare una frase, forse la più celebre, che il Mahatma scrisse in occasione di una delle sue tante azioni pacifiche per raggiungere l’indipendenza dell’India dal Regno Unito: “I want world symphathy in this battle of right against might”, voglio la simpatia del mondo in questa battaglia di diritto contro la violenza. Parole distensive in momenti cruciali, frasi pacifiche nel bel mezzo di una rivoluzione, che stridono con quanto sta accadendo in queste ore in India e in Italia.
Così come gli studenti italiani imparano ed apprezzano le gesta di un uomo che meritoriamente è un simbolo di pace, è opportuno che i connazionali di Gandhi ripercorrano i suoi insegnamenti, gli stessi per i quali sono diventati nazione godendo del rispetto di tutti. Anche degli italiani.