Arrivavano in Sicilia dalla Scandinavia con una missione: raggiungere altri paesi del Mediterraneo, più spesso il Maghreb, più raramente Cipro, Malta o il Libano, per “recuperare” bambini vittime di divorzi difficili tra genitori di nazionalità diversa. Organizzavano, grazie alla collaborazione di una rete di collaboratori in loco, guidati da Larysa Moskalenko, delle vere e proprie spedizioni paramilitari. Si procuravano imbarcazioni ad alta velocità, armi, comparse, fascette di plastica e psicofarmaci – qualora si rendesse necessario l’uso della violenza – e partivano. Tutto sotto l’egida, pare legale in Scandinavia, della società Abp World Group, specializzata in consulenza alle famiglie.
Dalle intercettazioni, difficili da ricostruire perchè le lingue parlate erano differenti, dal norvegese all’ucraino, dal tunisino all’inglese, i carabinieri di Palermo sono riusciti a ricostruire almeno tre operazioni di sequestro e tratta di minori: uno andato a buon fine, due senza buon esito invece.
La prima operazione ebbe luogo all’inizio dell’ottobre del 2012. Gli indagati, servendosi di un’imbarcazione condotta da uno skipper di Mazara del Vallo, che si era anche detto disponibile a corrompere le autorità di frontiera tunisine pur di evitare controlli indesiderati, si recarono a Port el-Kantaoui, località turistica della Tunisia, dove rapirono un bambino che portarono prima a Palermo, e quindi in Norvegia, dal genitore che si era rivolto alla società Abp. Del minore non si hanno notizie.
Poche settimane dopo ebbe inizio la seconda operazione, quella più complessa, ricostruita dai carabinieri grazie alle intercettazioni seguite all’incendio dell’hotel Porto rais di Carini, il cui titolare era il compagno della Moskalenko. “In una telefonata – racconta il colonnello Enrico Scandona – la donna fece riferimento a un rapimento e da lì siamo riusciti a tirare le fila delle indagini”. La destinazione della seconda operazione era una località dell’entroterra tunisino, Chebba Mahdia. Obiettivo era un bambino, di circa cinque anni, che doveva essere prelevato di domenica, unico giorno in cui i rapitori erano sicuri che fosse con la madre. L’intento era quello di fare irruzione nella villa dove abitavano i due, mettere fuori combattimento il personale di sorveglianza, “con ogni mezzo ritenuto necessario, dalle arti marziali alle armi da fuoco”, narcotizzare il bambino e la madre per poi fuggire con il minore il più velocemente possibile.
Per questa operazione, la preparazione a Palermo durò almeno due settimane. Ancora una volta si scelse un gommone cabinato ad alta velocità. Avevano provato a chiedere un elicottero, ma il costo dell’intervento sarebbe lievitato eccessivamente, oltre al fatto che, come si ascolta nelle intercettazioni non si riuscì a trovare un “pilota cowboy” deciso a gettarsi in un’impresa così pericolosa.
Per non attirare troppo l’attenzione delle autorità frontaliere tunisine, si cercarono due donne che potessero fingersi fidanzate dei due inviati scandinavi, per simulare un viaggio di piacere. “Si svolsero dei veri e propri colloqui, dei casting, in alberghi di lusso di Palermo – racconta Scandona – e molte donne furono scartate perchè non adatte, non abbastanza di tempra, finchè la scelta non cadde su una sola donna olandese, che però non fu informata fin dall’inizio delle vere intenzioni dei rapitori”.
Gli scandinavi si procurarono armi – si era addirittura tentato di far arrivare delle armi dalla Russia, rivolgendosi a una persona in contatto con un ex generale dell’Armata rossa sovietica – e altri strumenti (teaser, fascette di plastica per bloccare i polsi, sonniferi) utili a una vera e propria azione paramilitare. “In una telefonata – racconta ancora Scandona – parlano dell’uso della violenza come un’opzione, ma si dicono pronti anche a ‘uccidere, mettere i corpi in un baule e abbandonarli nel deserto’. Quindi, l’opzione era preparata fin nei minimi dettagli”.
A inizio novembre gli indagati, ormai pronti, partirono alla volta di Tunisi. Ma la Procura di Palermo non se la sentì di aspettare ancora e di mettere a rischio la vita del bambino e della madre. Così, avvertita l’Interpol, fu allertata la polizia tunisina che intervenne tempestivamente e arrestò i due sequestratori svedesi. “Da allora non abbiamo più notizie di loro – dice Maurizio Scalia, procure aggiunto di Palermo – ma le operazioni di indagine da ora proseguiranno con rogatorie internazionali per arrivare al bandolo della matassa e risalire ai mandanti di queste operazioni”.
Dal giorno dell’arresto in Tunisia dei due rapitori, le indagini continuarono comunque, ma i membri dell’associazione per delinquere, sentendosi nel mirino delle forze dell’ordine internazionali, diventarono più guardinghi, e le comunicazioni tra loro in un primo momento cessarono completamente, poi diventarono più rare.
“Siamo riusciti comunque a ricostruire le fasi preparatorie di altre quattro operazioni in fase di organizzazione che avevano come destinazione Cipro, Libano, Egitto e Ucraina – spiega Scandona – Per una di queste fu addirittura coinvolto un funzionario di un tribunale ucraino che, dietro lauto compenso, aveva dato la propria disponibilità a redigere una falsa sentenza per l’affidamento di un minore. L’obiettivo era portare una bambina oltreconfine utilizzando un’automobile di copertura, dopo aver comprato il silenzio della polizia di frontiera”. Ma poi sono arrivati gli arresti.
“Il problema – conclude Scandona – è che il mercato è florido. Sono tantissimi i divorzi difficili tra genitori di differenti nazionalità e sono altrettante le persone coinvolte in questi casi che sono disponibili a pagare migliaia di euro pur di riavere i propri figli accanto”. I contatti siciliani, per ogni operazione, guadagnavano almeno 20 mila euro. Cifre sicuramente più alte, dunque, venivano versate alla Abp World Group. Sulla legalità dei “servizi” offerti dalla società si continuerà indagare con la collaborazione delle forze dell’ordine internazionali.