“Quella fatta dai familiari di Peppino Impastato è stata una scelta di follia e dignità che insegna come spesso sia più facile arrivare alla verità da parte di chi sta cercando di conquistare e combattere da una trincea rispetto a chi sta comodamente seduto su una poltrona”. Lo ha detto Franca Imbergamo, magistrato della procura nazionale antimafia, intervenuta a un convegno su donne e mafia ai cantieri culturali alla Zisa, a Palermo.
All’incontro partecipano decine di studenti degli istituti scolastici del capoluogo Meli, Volta, Maria Adelaide, Garibaldi. “Ognuno nel proprio piccolo, ha la possibilità di fare qualcosa – ha detto il magistrato rivolgendosi ai ragazzi – voi avete la possibilità di scegliere il vostro futuro – Siate folli e siate affamati, come diceva Steve Jobs, siate affamati di giustizia”. Al dibattito sono intervenute diverse donne, familiari di vittime di mafia. Commosso il ricordo di Pina Catalano, sorella di Agostino Catalano, caposcorta del giudice Borsellino, ucciso nella strage di via D’Amelio: “Quando dopo la strage mia madre ha visitato il carcere Pagliarelli – ha detto Pina Catalano – i detenuti si sono inginocchiati chiedendole perdono, pur non essendo stati loro i diretti responsabili. Di fronte a quella scena, mia madre ha sentito una forte emozione, come se il suo cuore sanguinasse”.
Gli studenti hanno ascoltato le storie di Felicia Impastato, la cognata di Peppino Impastato, di Silvia Francese, nipote del giornalista Mario Francese, ucciso il 26 gennaio 1979 e di Tiziana Lo Salvo, figlia di Rosario Di Salvo, il collaboratore di Pio la Torre; i due furono uccisi da cosa nostra il 30 aprile del 1982. “Mia madre – ha detto Tiziana Lo Salvo – ha deciso di costituirsi parte civile in un processo di mafia, ed e’ stata una delle prime donne a fare questa scelta. Una decisione dolorosa: ad ogni seduta ripiombavamo nell’incubo, ogni telefonata anonima era un sobbalzo, ma una scelta necessaria di cui ho capito il senso da grande. Quando è stato ucciso, mio padre aveva 26 anni, era più giovane di me adesso”.
“E’ difficile fare il lavoro da magistrato, perché bisogna riuscire a mantenere in alcuni momenti anche la capacità di non piacere, mentre non c’è niente di peggio di un magistrato che abbia fideisticamente l’idea di avere ragione, magari forzando i fatti, pur di avere il consenso popolare. Giovanni Falcone e Rocco Chinnici avevano le prove per istruire il maxiprocesso, senza quelle prove ci sarebbe stata l’assoluzione per quei boss”. Lo ha detto Franca Imbergamo, magistrato della procura nazionale antimafia, intervenuta a un convegno su donne e mafia ai cantieri culturali alla Zisa, a Palermo.
“Ricordo – ha aggiunto Imbergamo – che quando da studentessa di Giurisprudenza intervistai Rocco Chinnici, mi parlò della solitudine del magistrato, spiegandomi che il proprio compito era di assicurare leggi e garanzie ai cittadini”. “Purtroppo in certi momenti – ha concluso Imbergamo – e’ difficile mantenere la giusta distanza tra l’antimafia del dolore e il rigore delle carte”.