Era il 9 ottobre di 50 anni fa. Da giorni si sentivano scricchioli. Alcuni erano impercettibili, o quasi, altri più marcati e rumorosi. Qualcuno a fondovalle aveva trovato delle crepe sulle mura di casa, vi aveva posto rimedio inserendo in alcuni punti dei pezzettini di vetro, per poter sentire il “click” del coccio che si rompe qualora la casa avesse dovuto far movimento e la crepa allargarsi. Qualcuno, molti, imputava la responsabilità di quegli strani rumori alla diga, ma nessuno poteva parlarne, non potevano mettere a repentaglio quel mostro che tanto lavoro aveva portato nei paesini del circondario.
Quando la diga del Vajont, alle 22.39 di quel 9 ottobre, venne giù, in molti sentirono solo un boato, altro che click dei vetrini spezzati. Era il Monte Toc che si lamentava e riversava nel lago Vajont oltre 260 metri cubi di rocce e terra a una velocità da brivido. L’onda che scaturì dalla frana la videro in pochi, e dire che era alta 200 metri. Morirono duemila persone.
I paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta, i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè furono rasi al suolo. Danni immani subirono molti altri centri abitati del fondovalle veneto. La diga, il “Grande Vajont” aveva ceduto, provocando quella che sarà ricordata come uno dei più grandi disastri evitabili della storia.
Già, evitabili, perché il gigantesco lago che raccoglieva le acque di tutta la valle per poter così produrre energia elettrica non doveva essere così costruito, o almeno i progetti della Sade (Società adriatica di elettricità), inizialmente erano diversi e vedevano le grande centrale idroelettrica costruita da un’altra parte, oltre il ponte Casso, ma alla fine si optò per la soluzione che avrebbe assicurato più capienza al bacino.
Uno dei progettisti della diga, l’ingegnere Carlo Semenza, dopo il disastro, scaricò le responsabilità in capo alle piogge torrenziali di quelle settimane. In realtà, fu appurato, quella naturale fu solo una concausa. Una concausa prevista, ad esempio, dalla giornalista de l’Unità, Tina Merlin, a lungo minacciata e perseguitata perché nei suoi articoli denunciava il pericolo di maxi smottamento del Monte Toc.
A distanza di 50 anni a regnare nel fondovalle veneto sono rimaste le foglie degli alberi, gli uccelli e un silenzio irreale, tipico dei cimiteri e dei posti abbandonati, oppure, come in questo caso, dei paesi fantasma come Longarone.