PALERMO, 26 SETTEMBRE 2013 – Era il 26 settembre del 1969, quando un’iconica copertina del gruppo più importante di tutti i tempi, consegnava alla storia una normale strada londinese e la sua segnaletica orizzontale. Si tratta, l’avete sicuramente già capito, della mitica copertina di “Abbey Road”, il penultimo album dei Beatles dato alle stampe proprio 44 anni fa.
Un semplice scatto con i quattro Beatles intenti ad attraversare le strisce pedonali situate di fronte agli Abbey Road Studios della Emi ed ecco creata un’icona senza tempo, riprodotta su migliaia di gadget, maglie, stampe e chi più ne ha più ne metta. Nessuna scritta, nessun simbolo, nessun riferimento alla band. Non ce n’era bisogno. Le immagini dei quattro non hanno bisogno di didascalie. E questo accorgimento la rende ancora di più un’opera d’arte, uno scatto da incorniciare e appendere tra un’opera di Dalì e una foto di Henri Cartier-Bresson.
Un’immagine simbolo del ventesimo secolo, che ognuno di noi potrebbe consegnare a un ipotetico uomo del futuro (o del passato, perché no!) per raccontargli delle grandi opere d’ingegno del ventesimo secolo. E che ha sicuramente fatto la fortuna di chi l’ha scattata: Iain McMillan.
Ma come nacque l’idea di quello che viene annoverato tra gli scatti più famosi e importanti di tutti i tempi? L’idea venne a John Lennon, per superare l’impasse scaturita dai dubbi nella scelta della cover. Una semplice foto sulle strisce pedonali, giusto “davanti casa”. Niente studi professionali, niente lavori impegnativi di collage, come quello realizzato solo un paio d’anni prima da Peter Blake per “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. Uno scatto naturale, il più genuino possibile. Ma il buon Paul McCartney non si sarebbe di certo accontentato. Ed ecco il colpo di genio. Si toglie i sandali e decide di attraversare scalzo, senza seguire il paso degli altri tre. Questo dettaglio, evidente a primo impatto, sarebbe diventato uno degli indizi a supporto della leggenda della sua morte.
Come dicevamo, si tratta del penultimo album della band. Almeno in ordine cronologico. Infatti, quelle che poi sarebbero diventate le canzoni di “Let It Be”, il commiato definitivo dei quattro, esistevano già. Registrate tra la fine del 1968 e gli inizi del ’69, sono state accantonate per evitare di dare alle stampe un lavoro veramente sciatto e sotto tono, lontano dagli abituali standard del gruppo. All’inizio del 1970 ci avrebbe rimesso mano Phil Spector, il creatore del “Wall of Sound”, riuscendo a trarne un’opera convincente.
Quindi si può parlare di un vero e proprio miracolo del produttore George Martin, riuscito a rimetterli in riga, quando ormai i quattro riuscivano a malapena a sopportarsi, e a riportarli all’interno di uno studio di registrazione per produrre le ultime gemme di una carriera irripetibile. Incastonate in una cornice di una bellezza incomparabile.