PALERMO, 22 SETTEMBRE 2013 – Il protocollo che porta alla consegna da parte del sindaco Orlando della medaglia della città di Palermo a Domenico Quirico non vuole essere troppo formale. Arrivati nella stanza del primo cittadino, infatti, li troviamo entrambi, il giornalista e il professore, a chiacchierare di libri e di autori le cui opere difficilmente si sarebbero potute trovare sugli scaffali di una comune libreria già al tempo in cui furono pubblicate.
Quirico racconta di aver avuto con sé durante i cinque lunghi mesi di prigionia in Siria una copia de La via del ritorno, di Erich Remarque e trova in Orlando un formidabile interlocutore. Sul volto del corrispondente de La Stampa non c’è più la folta barba brizzolata di quando fu liberato, ma, forse per la suggestione che può causare il personaggio, i cinque mesi di prigionia sembrano aver lasciato il segno.
Com’è cambiata la sua vita sia dal punto di vista personale che da quello professionale? Tornerà sul fronte?
La mia vita è stata sempre attraversata da situazioni come quella siriana, sono stato in Somalia, Ruanda, Liberia, Congo, Cecenia… Se continuo a fare il giornalista lo faccio in questi termini, in questo modo, altrimenti si può anche cambiare mestiere, si può fare altro. Come sia cambiata la mia vita poi non so ancora dirlo, deve prima passare un po’ di tempo. Sono ancora sotto sequestro (sorride n.d.r.), non più da parte dei siriani, ma da gente che vuole intervistarmi e altro, ma prima o poi me ne libererò e cercherò di riprendermi la mia vita di una volta.
Noi italiani siamo abituati a categorizzare: buoni da una parte e cattivi dall’altra. In riferimento alla questione siriana, invece, sembra che la situazione sia molto più complessa…
Lo è, è molto complessa ed è molto difficile da registrare. Io stesso sono vittima della difficoltà di capire che in un brevissimo lasso di tempo gli attori si sono moltiplicati e non sono più gli stessi. Ho conosciuto e amato la prima rivoluzione siriana, quella dei ragazzi, quella di Aleppo, dove ho lasciato amici. Adesso ci sono altri attori, completamente diversi e i primi rivoluzionari arrancano, sono ridotti ai minimi termini, hanno lasciato il posto agli islamisti, ai banditi. In tutte le guerre civili, d’altra parte, c’è questo ampollare, dopo la prima fase, di altri soggetti, di altre storie. Dividere come la mela di Biancaneve: il veleno di qua e dall’altra parte è tutto buono è veramente molto complesso oggi in Siria.
L’idea è che, nonostante gli interventi militari previsti, in Siria il conflitto non durerà così poco come vogliono far credere.
Penso che ci sia qualcuno che lavora perché questa guerra continui per molti anni, perché fa comodo che le forze contrapposte si annullino e si indeboliscano le une con le altre. È una tragedia terribile. Centomila morti! Centomila morti che, generalmente, si pensa siano quasi tutti combattenti, mentre invece questi saranno appena il dieci per cento. Per il resto c’è gente morta sotto i bombardamenti, nelle case crollate, ammazzati per pulizia etnica o per pulizia religiosa. Forse la grande colpa del mio mestiere è di non essere riuscito a mobilitare le coscienze della gente comune su questa tragedia, di non aver restituito cosa vuol dire vivere in Siria oggi. Non ci siamo riusciti. Non ci sono riuscito io e non l’hanno fatto i miei colleghi, altrimenti ci sarebbe stata una mobilitazione generale. Oggi infatti la Siria è sì un problema, ma non è “Il” problema, mentre invece, secondo me, dovrebbe essere un punto centrale della storia. Bisogna immaginare che ogni giorno in quel paese muoiono centinaia e centinaia di persone. Non si può fare un resoconto ogni mese, bisogna riempire quei giorni con quello che è successo, raccontare cosa vuol dire alzarsi al mattino, andare a comprare il pane e venire bombardati da un Mig. Il fatto che io sia stato preso dagli altri non mi fa certo cambiare idea sul regime. Il regime è mafioso, sanguinario, ha bombardato la propria popolazione e questo non si può dimenticare.
Da questo punto di vista è stato il Ruanda a cambiare la mia vita, perché per la prima volta mi sono reso conto che il mio mestiere non era riuscito a fare quello che doveva fare. Noi siamo arrivati in Ruanda quando il genocidio era già avvenuto: abbiamo raccontato il dopo, ma non è così che bisogna lavorare, bisognava andarci prima e andare a dire al mondo cosa stava avvenendo e lo stesso si doveva fare in Siria.
In questo terribile conflitto, il popolo siriano, sicuramente vittima designata, come si comporta?
Credo che il territorio siriano sia stato ritagliato in vari piccoli feudi controllati da una banda piuttosto che da un’altra o dagli islamisti, ma in realtà la maggior parte della popolazione cerca di sopravvivere e arrivare alla fine di questa tragedia, per cui nessuno gli ha chiesto un parere e per cui si trova ad essere taglieggiata da entrambe le parti in conflitto. Paradossalmente i più rigorosi sono gli islamisti: sono terribili, hanno una legge tremenda, però non sono banditi. La stessa cosa è successa in altre parti del mondo, come, ad esempio, in Somalia, dove al tempo dei signori della guerra tutti erano islamici ma nessuno era fondamentalista. Poi all’improvviso, nel caos generale, sono arrivati questi fanatici e hanno cominciare a tagliare le mani ai ladri e a uccidere i signori della guerra che depredavano la popolazione, mettendo in piedi un ordine tremendo, ma la gente diceva ‘beh, quantomeno esco di casa e non c’è nessuno che mi spara’. Lo stesso meccanismo si sta innescando in Siria, dove se gli islamisti prenderanno il potere metteranno subito la sharia e cercheranno di creare una sorta di califfato sulla falsa riga di quello del sesto secolo, quando l’Islam ha vissuto il massimo della sua espansione.
I tempi delle rivoluzioni di fine anni Cinquanta sono quindi solo un ricordo?
Lontanissimo.