Rosario Livatino, storia di un grande precursore che forse sarà beato

di Redazione

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Rosario Livatino, storia di un grande precursore che forse sarà beato

| sabato 21 Settembre 2013 - 00:03

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PALERMO, 21 SETTEMBRE 2013 – Per linea editoriale abbiamo deciso di concedere un trattamento medesimo a tutte le vittime di mafia, per omaggio, certo, per dimostrare che non esistono morti di serie A e di serie B, chiaramente, ma soprattutto per raccontare delle storie. Storie di persone spesso fuori dal comune, che mal si sposano con i tanto osannati eroi della carta patinata, ma che, nel loro piccolo, possono offrire ancora grandi insegnamenti.

Rosario Angelo Livatino era una di queste persone. Un uomo di giustizia e allo stesso tempo (o per questo, come disse papa Giovanni Paolo II) un uomo di fede, il giudice ragazzino, soprannome che gli resterà attaccato anche dopo la sua morte, fu sopra ogni cosa un grande precursore.

Un precursore dei tempi, a lui si deve l’aver sollevato il coperchio del calderone della cosiddetta Tangentopoli siciliana, un giro di mazzette e tangenti che vide coinvolti uomini politici e volti noti nella Sicilia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Un precursore nei modi, fu trai primi a usare come efficacissimo mezzo per colpire la cupola mafiosa lo strumento della confisca dei beni. Un precursore, purtroppo, anche nella morte, ucciso dalla Stidda, la corrente rivale di Cosa Nostra, nel 1990, primo caso di quello che di lì a poco sarebbe stato il tragico tiro a segno della mafia nei confronti di chi gli dava la caccia.

Rosario Livatino, originario di Canicattì, giudice a latere presso il tribunale di Agrigento, era uomo testardo. Si era messo in testa di debellare la mafia dall’Agrigentino e di farlo colpendo i clan direttamente al cuore, nei loro affari, effettuando dei sequestri mirati. La sua fu una vera e propria esecuzione. A raccontarlo è il secondo eroe di questa vicenda: Pietro Nava, l’uomo che, dopo aver assistito all’omicidio, corse senza esitare in caserma a raccontare tutto in barba all’aura d’omertà che ricopriva la Sicilia e che ancora oggi fatica a dissiparsi in certe zone.

Nava raccontò di aver visto i due killer, Paolo Amico e Domenico Pace, riconosciuti in seguito come due “Stiddari” del clan di Palma di Montechiaro, inseguire e giustiziare a colpi di pistola il giudice dopo aver fermato la sua auto lungo la SS 640, che da Canicattì porta ad Agrigento. Grazie ai dettagli forniti agli inquirenti dal teste venuto dal Nord per i due la sentenza fu l’ergastolo.
Ben presto si scoprì, grazie alle rivelazioni del pentito “stiddaro” Gioacchino Schembri, che all’agguato avevano preso parte anche altri tre killer palmesi: Gaetano Puzzangaro, Filippo Avarello e Giuseppe Croce Benvenuto e che l’inseguimento di Livatino giù per una scarpata fu dovuto al fatto che il mitra di Puzzangaro, che non avrebbe dovuto lasciar scampo al giudice, si era invece inceppato.

Ma la storia di Rosario Livatino, che in carriera aveva anche indagato sulle presunte commistioni tra mafia e massoneria, non si ferma all’ambito giudiziario. Fervente credente, infatti, dopo la sua morte per lui si aprirono le porte di un processo diocesano di beatificazione aperto ufficialmente nel 2011 dall’arcivescovo di Agrigento proprio il 21 settembre nella chiesa della sua Canicattì.

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