PALERMO, 5 SETTEMBRE 2013 – Depositate ieri le motivazioni della sentenza d’appello che ha condannato a 7 anni di reclusione l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa.
I magistrati della terza sezione che hanno emesso il verdetto avevano chiesto e ottenuto una proroga di 90 giorni sul termine di deposito della sentenza previsto prima dell’estate. Il presidente della corte d’appello, Vincenzo Oliveri, aveva autorizzato la proroga accettando la motivazione dei pm basata sulla particolare complessità del procedimento.
Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado a 9 anni di carcere ed a 7 in secondo grado. La Cassazione aveva poi annullato con rinvio il verdetto. Da qui il secondo processo d’appello. Sul processo pesa la spada di Damocle della prescrizione del reato che, secondo la Procura Generale, dovrebbe scattare alla fine del prossimo anno. Entro il 2014, dunque, il processo dovrebbe chiudersi anche in Cassazione.
La condotta illecita del senatore Marcello Dell’Utri per la terza sezione della corte d’appello di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, è “andata avanti nell’arco di un ventennio”, con una serie di comportamenti “tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale”. L’imputato, dicono i giudici nelle motivazioni della sentenza, “ha ritenuto di agire in sinergia con l’associazione”.
“La personalità dell’imputato – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza del 25 marzo scorso – appare connotata da una naturale propensione a entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli avevano dato una possibilità di farlo”.
“In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) – prosegue la corte – ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese (Silvio Berlusconi, ndr) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione”.
L’incontro avvenuto a maggio 1974, cui erano presenti Gaetano Cinà, Dell’Utri, Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Berlusconi, ha ”siglato il patto di protezione di Berlusconi”. Lo si legge nella sentenza Dell’Utri. ”L’incontro – è scritto – ha costituito la genesi del rapporto che ha legato l’imprenditore e la mafia con la mediazione di Dell’Utri”.
Per la corte, ”non sussiste dubbio alcuno sulla prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a Cosa nostra sulla base dell’accordo siglato nel 1974”. Le somme di Berlusconi arrivavano a Riina attraverso Dell’Utri. ”Riina – dicono i giudici – non aveva fatto mistero del fatto che l’interesse era anche quello di natura politica. Dell’Utri, per il boss, rappresentava un contatto con Silvio Berlusconi e dunque, a suo avviso, con Bettino Craxi. Riina per le elezioni politiche del 1987 aveva ordinato di votare il Psi. Vi era un accordo per dare un aiuto ai carcerati”.
E le cose non sarebbero cambiate nemmeno dopo la morte di Stefano Bontade e Mimmo Teresi, e quindi tra il 1982 e il 1992. ”Il mutamento dei vertici di Cosa nostra – recita la sentenza – non aveva modificato in alcun modo l’impegno finanziario del gruppo Berlusconi nei confronti dell’organizzazione criminale e dunque i pagamenti erano sempre proseguiti”.
La corte d’appello di Palermo ha espresso un ”giudizio di inattendibilità intrinseca del collaborante Gaetano Grado”. I fatti da lui enunciati ”non possono considerarsi idonei a superare neppure la soglia di mero indizio”. L’esame di Grado era stato chiesto dal procuratore generale e ammesso dalla corte. Il collaboratore di giustizia ha riferito che Dell’Utri avrebbe fatto da tramite nel riciclaggio di denaro proveniente da un traffico di droga dalle cosche nell’attività di realizzazione di Milano 1 e Milano 2 di Silvio Berlusconi.
Un argomento che secondo la corte ”non sarebbe stato di poco rilievo in quanto avrebbe fornito un’ulteriore conferma del ruolo assunto da Dell’Utri nei confronti della consorteriamafiosa e anche dell’amico Berlusconi e la sua consapevolezza di agire rafforzando il potere economico di Cosa nostra tutelando gli interessi del gruppo imprenditoriale del quale non si era mai distaccato”.
”Tuttavia – scrive la corte – la particolare enfasi adoperata con il richiamo alle regole di Cosa nostra da parte di Grado e l’avere più volte evocato la sua totale avversione e il disappunto nei confronti di coloro che erano dediti all’attività di traffico di droga, non si concilia con le condanne riportate da Grado”. ”La falsità sul punto è tale – proseguono i giudici – e di tale gravità che è impossibile valutare spontanee, coerenti e affidabili tutte le altre dichiarazioni che dunque non possono essere prese dal collegio in alcuna considerazione”.
Anche le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca, acquisite all’interno dei verbali nel secondo processo d’appello a Marcello Del’Utri, ”si sono rivelate – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza – del tutto inconsistenti sui pagamenti di Berlusconi nel periodo successivo alla morte di Bontade e incerte e contraddittorie se messe a confronto con quelle di altri pentiti per il periodo compreso tra il 1986 e il 1992”. Per la corte ”l’affermazione di Brusca – che ha fatto riferimento a promesse che Dell’Utri avrebbe fatto a Cosa nostra di vantaggi legislativi e processuali – non solo è del tutto generica, ma è rimasta priva di concreti riscontri”.
Un passaggio della sentenza riguarda lo stalliere di Arcore, quel Vittorio Mangano la cui assunzione ad Arcore “è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all’interno della villa di Berlusconi”.