ROMA, 4 SETTEMBRE 2013 – Il Burning Man 2013 si è concluso due giorni fa, ma la potenza social del festival “autosufficiente” non si ferma.
Niente elettricità, niente telefoni, niente fotografi professionisti ma tanti fotografi votati a Instagram: è proprio dal social delle foto che arriva una testimonianza eccezionale del festival ideato nel 1990 da Kevin Evans, John Law e Michael Mikel. Il festival si tiene nel deserto del Nevada ed è una kermesse di arte, musica e autosufficienza. Il nome deriva dall’idea di bruciare un’enorme scultura di legno dalla forma umana.
Niente a che vedere con Woodstock però: la forza del Burning Man sta nella sperimentazione annuale in arte, creatività, espressione di sé stessi. Papere giganti, vascelli nel deserto, installazioni con la scritta Love e altre con la scritta Boring, sfere sospese nel vuoto: per costruire una comunità urbana a Black Rock City, nel cuore degli Stati Uniti, i “burner” – come si definiscono i partecipanti al festival – posizionano le proprie installazioni artistiche o si svolgono le proprie esibizioni nello spicchio lasciato “vuoto” al centro dei cerchi concentrici che formano la città stessa del festival.
I partecipanti di quest’anno sono stati 70 mila (un numero enorme, considerando che il biglietto si aggirava sui 400 dollari). Hannoc reato la città itinerante, una utopia nel deserto, che è sparita proprio lunedì per tornare a vivere l’anno prossima nella futura edizione del festival che sta cambiando lo scenario post-hippy e anticonformista. Dal 1990 ad oggi, si può parlare di cultura 3.0? Superare la rete per restare e scoppiare nella rete stessa.
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