CALTANISSETTA, 2 LUGLIO 2013 – “Devi dire che sei stato tu a rubare la Fiat 126 assieme a tuo zio e a Candura”.
Questa frase, che sarebbe stata proferita dall’allora capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, e riferita oggi sotto giuramento dal testimone Roberto Valenti – a suo tempo coinvolto nelle indagini sul furto della vettura utilizzata come autobomba in via D’Amelio – sembra essere uno dei primi atti del presunto depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino.
La deposizione del teste, arrestato assieme allo zio Luciano il 5 settembre del 1992 per rapina e violenza sessuale ai danni di un’amica, e poi coinvolto marginalmente anche nell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, è andata in scena, nell’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta, al processo “Borsellino quater”, dove si sono vissute punte di forte, e allo stesso tempo amara, ilarità, e sono anche venute fuori sconvolgenti motivazioni per aderire al programma di protezione per i collaboratori di giustizia.
Roberto Valenti, uscito dopo anni scagionato, ha raccontato alla Corte d’assise di Caltanissetta il colloquio con l’alto funzionario di Polizia, ora deceduto, negli uffici della squadra mobile palermitana. Secondo il teste La Barbera, dopo aver chiesto notizie sulla rapina e sulla violenza alla ragazza gli avrebbe detto: “e ora parliamo della macchina: dillo o ti porto in carcere”. Secondo il teste, insomma, La Barbera lo avrebbe pressato per fargli confessare il furto della Fiat 126 della zia Pietrina. Lui però negò ogni responsabilità e si rifiutò di autoaccusarsi e venne condotto nel carcere di Termini Imerese. Prima e dopo Roberto Valenti i giudici nisseni hanno ascoltato Pietrina Valenti ed il fratello Luciano.
La donna, che era stata già sentita anche nel corso dei due procedimenti “Borsellino” e “Borsellino bis” oggetto oggi di profonda revisione, nel corso di una colorita deposizione ha ricordato di aver denunciato il 10 luglio 1992, il furto della propria autovettura, di colore bordeaux “che aveva un bloccasterzo speciale che non se la poteva portare nessuno. Eppure se la sono portata…”.
La donna, dopo aver prestato la formula di giuramento ripetendo la formula che gli veniva letta dall’assistente giudiziario, rispondendo alle domande dei Pm ha detto di aver chiesto ‘aiuto’ a Salvatore Candura – “anche se sospettavo di lui”, ha affermato – per cercare di recuperare la vettura avuta in eredità dalla madre deceduta da poco.
“Gli dissi che gli davo 200 mila lire se me la ritrovava”. Un altro inquietante spaccato sulle ricerca dei colpevoli della strage di via D’Amelio è stato offerto da Luciano Valenti, anch’esso sentito nei primi due processi sulle stragi, a lungo ammesso al programma di protezione, nel quale avrebbe chiesto pure di rientrare, e oggi, a suo dire, beneficiario di una pensione di invalidità per infermità mentale. Il teste, ha raccontato delle ricerche della Fiat 126 assieme a Candura, con il quale condivideva la passione per la musica, e ha raccontato quello che, gli sarebbe capitato il giorno dell’arresto per rapina e violenza sessuale, assieme al nipote.
“Mi portarono in via Libertà e mi diedero legnate. Il dottor Ricciardi faceva segnali con gli occhi ai colleghi e loro mi picchiavano. Io mi stavo buttando dalla finestra perchè chiedevo il confronto con la ragazza”. Dopo una breve permanenza “nei canili dell’Ucciardone” dove era stato recluso anche Candura “che è stato pure preso a botte e lo sentivo gridare aiuto, aiuto”, per Valenti venne disposto il trasferimento nel carcere di Belluno.
“Durante il trasferimento – ha detto il teste – in una area di servizio una ispettrice di polizia mi mise la pistola in bocca dicendo: ‘ora ci racconti tutto'”. Una volta giunto a Belluno, Luciano Valenti si trovò davanti ancora una volta La Barbera e Ricciardi. “Luciano, allora? Non sai niente della macchina? Candura dice che l’hai rubata tu…'” gli avrebbero chiesto i funzionari di polizia. Secondo il racconto del teste, i due poliziotti gli avrebbero poi chiesto la disponibilità a stare in cella con Candura nel carcere di Bergamo.
“Nella cittadina bergamasca Candura mi chiese di fare la dichiarazione di aver rubato la vettura e di averla portata in via Cavour. E mi convinse a firmare e a far venire i magistrati di Caltanissetta. Io, come un cretino, firmai…”. Per convincere Luciano Valenti, che all’epoca vendeva fazzolettini di carta, Candura gli disse che “avrei avuto una casa, un milione e duecentomila lire al mese e una vita nuova…”.
Cominciò così, “in un albergo dove c’era pure chi spendeva centinaia di migliaia di lire al giorno” la nuova vita del collaboratore di giustizia Luciano Valenti, che non aveva commesso alcun reato relativo alla strage Borsellino e che dopo anni decise di tornare cittadino libero. Nel frattempo, Salvatore Candura decise di autoaccusarsi del furto della vettura.
Da quel che si è appreso oggi nel corso della deposizione pare esista una relazione di servizio di una ispettrice di polizia che racconterebbe come il teste, non molto tempo fa, viste le difficoltà a trovare un lavoro, sia andato a chiedere di rientrare nel programma di protezione. Luciano Valenti, però, ha smentito “Non avrei cosa raccontare”.
Nel mezzo delle deposizioni dei Valenti, è stato ascoltato anche Francesco Spatuzza, fratello maggiore del collaboratore di giustizia, Gaspare. “Mio fratello non ha mai riparato macchine” ha detto il teste riferendo di aver avuto in passato “una Fiat 126 bianca, che talvolta ho prestato a mio fratello”.
(Italpress)