PALERMO, 16 GIUGNO 2013 – L’omicidio della maestra di Vittoria per mano del bidello della scuola elementare in cui insegnava – che pare fosse innamorato di lei da tempo – ha riacceso il dibattito mediatico sui numeri dei femminicidi in Italia e sull’assenza di misure per prevenirli ed eventualmente punirli.
“Un uomo non corrisposto – scrivono le attiviste dei centri anti-violenza sui social network – si sente in diritto di sopprimere la donna oggetto del suo desiderio. Questo è un istinto frutto della cultura misogina diffusa in Italia”.
Affermare che in Italia sia diffusa una cultura misogina, nel XXI secolo, appare eccessivo. Ma di questo le donne dei centri anti-violenza, che stanno nascendo in tutta Italia, ne sono più che convinte e combattono affinché l’opinione pubblica, i mass media, le Istituzioni ne prendano coscienza.
Uno dei dati evidenziati dalle ricerche della Casa delle donne di Bologna, i cui studi sono tra i più accreditati per l’analisi del fenomeno dei femminicidi in Italia, è che la maggior parte dei casi, anche se si verificano in contesti molto diversi, sono più frequenti nel Nord del nostro paese, in ambiti quindi in cui le donne lavorano di più ed hanno un grado di autonomia ed emancipazione dal maschio maggiore. E questo comporterebbe uno squilibrio per l’uomo che alcuni soggetti non riescono a sopportare, sfociando dunque in violenza.
Gli uomini che ne sono autori non sono però pazzi o emarginati, ma persone assolutamente comuni, che appartengono a tutte le classi sociali e spesso anche in possesso di gradi di istruzione elevati e di condizioni economiche agiate.
Nel 2012, secondo i dati riportati dalla Casa delle donne di Bologna, sono stati 124 i femminicidi. E il 2013 si avvia a superare questa cifra. Un dato allarmante, sebbene qualsiasi dibattito sul femminicidio possa essere purtroppo screditato per via dell’assenza di scientificità, a partire per esempio dalla raccolta dei dati.
Non esistono statistiche ufficiali sull’argomento e ricerche condotte sulla base degli articoli pubblicati sulla stampa non hanno nessun riconoscimento scientifico: non è altro, infatti, che una ricerca sui dati che i giornalisti hanno deciso di trattare per ogni caso.
Ed è evidente che – con un termine che potrebbe scatenare qualche polemica – la “moda” dei femminicidi spinge, ogni volta che una donna è vittima di un assassinio, a cercare relazioni con il carnefice o elementi per affermare che la donna sia stata uccisa per la propria appartenenza al genere femminile.
Servirebbero quindi, per affrontare l’argomento con la giusta dose di attenzione, categorie più precise per la classificazione, raccolte di dati più ufficiali, osservatori permanenti. Ma, in attesa di questi accorgimenti, basta lo sforzo dei centri anti-violenza sulle donne per dire che il fenomeno è effettivamente diffuso in Italia e che difficoltà economiche, disoccupazione e dequalificazione professionale non possono che essere benzina sul fuoco.
Ma perché lo stesso non si può dire per le donne che uccidono? Perché non contare anche i casi di uomini uccisi da donne con cui sono coinvolti in relazioni passionali o familiari? Quali sarebbero i numeri? E si tratterebbe, forse, di casi che hanno, per la società, un minore valore?
Sono questi gli interrogativi a cui rispondere per restituire credibilità al dibattito sul femminicidio in Italia.