PALERMO, 7 GIUGNO 2013 – Dopo la requisitoria del pm Nino Di Matteo, al processo contro gli ufficiali dei Carabinieri Mori e Obinu tocca alle arringhe difensive.
Nell’udienza fissata per stamattina le dichiarazioni spontanee del generale Mario Mori e del colonello Mauro Obinu. I due sono accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995.
Nella scorsa udienza Di Matteo, oggi assente in aula, aveva chiesto per Mori e Obinu, rispettivamente, nove anni e sei anni e mezzo di carcere. La sentenza è prevista prima della pausa estiva dei lavori del Tribunale di Palermo.
Mori e Obinu usano toni molto duri per respingere le accuse del pm e Mori non esita a parlare di una sorta di “partito” interessato ad accreditare la teoria del complotto per acquisire visibilità. “L’accusa rivolta ai miei ufficiali ed a me – dice – di avere, perseguito obiettivi di politica criminale è offensiva”.
Per Mori l’accusa non è “sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico”. Ma il Generale afferma che può dimostrare la falsità del teorema dell’accusa.
Mori parla di “una specifica corrente di pensiero, precisamente caratterizzata sotto l’aspetto della connotazione politica, che ha fatto della lotta alla mafia una vera priorità” una corrente che “presuppone precise connivenze e puntuali favoreggiamenti in una parte delle istituzioni dello Stato”. E poi accusa: “Questo movimento d’opinione cerca tuttora condivisione e visibilità”.
Mori legge la sua autodifesa di 165 pagine ma soprattutto elenca i nomi dei presunti complottisti: politici, magistrati, giornalisti e associazioni. Una lista inquietante che si apre con Sonia Alfano e Giuseppe Lumia che “si avvalgono del sostegno” di Antonio Di Pietro, Angela Napoli, Fabio Granata, Luigi Li Gotti, Leoluca Orlando e Rosario Crocetta.
Poi Fabio Repici, Gioacchino Genchi, Marco Travaglio che vengono “sostenuti saltuariamente” da Francesco Pancho Pardi, Concita Di Gregorio, Sandra Amurri, Saverio Lodato, Giuseppe Lo Bianco. Chiude la lista di quella che Mori dipinge quasi come un’organizzazione strutturata, il movimento delle Agende rosse, le associazioni Antimafia 2000 e Libera. Finita la “lista” arriva l’attacco a Massimo Ciancimino: il “papello” per Mori “è un pezzo di carta fra i tanti di origine incerta consegnati da Massimo Ciancimino”.
Mori ha spiegato anche i suoi contatti con Vito Ciancimino, dopo la strage di Capaci. Per il militare si voleva portare don Vito a “rendere qualche significativa ammissione o una piena collaborazione, che avrebbe avuto un effetto destabilizzante all’interno dell’associazione criminale”.
Poi rivendica ai Ros di essere stati gli unici a lottare efficacemente contro Cosa nostra. Mori descrive la Procura come “un covo di vipere alla paralisi” e afferma che questo era il “il parere espresso da Paolo Borsellino, nel giugno 1992, ai colleghi Camassa e Russo”.
Prima di lui Obinu ha respinto ogni accusa, definendo funambolico il testimone-inputato Massimo Ciancimino. Concludendo ha sottolineato di avere “accettato lezioni morali solo da mio padre, in giovane età, perchè lui era umile e aveva stile. Per il resto ho sempre seguito i doveri del giuramento prestato alla Repubblica senza mai tradirlo come afferma il pubblico ministero”. E ha concluso “È stato un onore affrontare questa amara esperienza con il generale Mori. Una battaglia che mi rende fiero di avere militato nella struttura anticrimine dell’Arma dei Carabinieri”.