PALERMO, 28 MAGGIO 2013 – Quanti giorni mancano da qui alla fine? “Due anni dieci mesi e quindici giorni: in carcere un giorno è un’infinità di tempo”. Iniziamo dalla fine, la conclusione di un’intervista di Domenico Iannacone a Salvatore Cuffaro nel carcere di Rebibbia. Un uomo che corre, solo.
Un percorso sempre uguale e il rumore dei passi. “Io col pensiero mentre corro vado nei luoghi dove mi piacerebbe andare e ho misurato il tempo di arrivo con i chilometri che faccio ogni mattina correndo. Io so che per arrivare in Sicilia devo correre almeno per cento giorni”. L’ex governatore siciliano, condannato a sette anni di reclusione si racconta a “i dieci comandamenti” di Rai Tre.
“Il carcere si conosce soltanto quando si entra per rimanerci – è così che Totò Cuffaro inizia il suo racconto – Da presidente andavo in giro per tutte le carceri di Sicilia, ma visitarle è una cosa starci dentro è un’altra”. Dimagrito e con il volto disteso, l’ex governatore siciliano, racconta la sua vita da detenuto. “Da dove partiamo – chiede il giornalista di Raitre a Totò Cuffaro – da dove vogliamo iniziare?”
L’ex presidente inizia da un numero, dal suo presente dentro il carcere: “71833, è la mia matricola. È un pezzo di questa mia vita”. L’accusa, per il medico siciliano, è quella di favoreggiamento aggravato alla mafia. “Avrei detto che c’erano delle microspie in casa di un mafioso – spiega – e questo lo avrebbe aiutato”. Ma sulla veridicità o meno di queste accuse, “Totò ‘u vasa vasa” racconta: “Appartiene alla mia coscienza, se io l’avessi fatto lo avrei ammesso”. Non sembra essere risentito, ma “le manette” hanno aperto una profonda ferita nel cuore dell’ex governatore.
“Ho riempito una borsa e mi sono avviato verso la caserma dei carabinieri in piazza Farnese – racconta Cuffaro a Iannacone nella biblioteca del carcere parlando del giorno del suo arresto – Ma quando, giustamente, dalla caserma sono stato portato via in macchina e mi hanno messo le manette: per me è stato drammatico”. Parla di essersele sentite intorno al cuore, le manette, paragonandole ad un filo spinato che umilia e ferisce.
Una persona mite, molto lontana dal giovane dirigente democristiano che il 26 settembre del 1991 “sfondò” lo schermo televisivo ergendosi a difensore del suo partito durante una, ormai storica, puntata di Samarcanda che in ricordo di Libero Grassi realizzò una staffetta televisiva con il Maurizio Costanzo Show. “Gli arroganti quando sono colpiti da un’esperienza difficile – chiede Domenico Iannacone – si abbassano di livello. A Lei cosa sta succedendo? “.
Cuffaro, ormai studente di giurisprudenza con nove materie sostenute all’università, non esclude di essere stato un’arrogante, ma spiega “Mi sono sforzato di stare in mezzo alla gente, il cuffarismo era anche questo” Parla di un doppio significato del termine cuffarismo, un’accezione negativa e una positiva. “Per me il cuffarismo era accogliere le persone alle tre di notte nel mio ufficio, persone che non mi chiedevano niente ma mi spiegavano che a loro bastava di poter dire di avere preso un caffè con il governatore della Sicilia”.
La differenza tra le bugie in politica, che secondo Cuffaro sembrano quasi essere fisiologiche del mestiere, e l’impossibilità di crearsi un alibi in carcere: sembra meravigliarlo. “Per tanto tempo mi hanno chiamato in molti Salvatore qui in carcere – racconta – e adesso in moltissimi mi chiamano Totò e mi fa piacere”.
Un Cuffaro che lascia spazio al racconto di sè, dell’esperienza forte del colloquio con i familiari e alla vergogna della sua condizione di detenuto.”Io ho 4 ore di colloquio mensile, i miei hanno scelto di venire ogni settimana. Si crea un incantesimo che dura fino a quando non ti dicono che devi fare il colloquio. Nel tragitto dalla cella alla sala tutte le persone ti dicono ‘buon colloquio’. E questo mi rende felice”.